venerdì 13 dicembre 2013

E' nata la nuova sezione Psicofilm!


Non perdete la nuova pagina dedicata ai film! La trovate al link http://www.nonsolopsicologia.blogspot.it/p/psicofilm.html oppure cliccando su Psicofilm nel menù a destra.

Appena pubblicato: PRISONERS | PRIGIONIERI, trama e breve commento a cura della dott.ssa Giorgia Aloisio.

Buona lettura!

Lo Staff.

giovedì 5 dicembre 2013

Disturbi Alimentari: si ammalano sempre più adolescenti!


La Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza (SIMA) delinea un quadro davvero allarmante: “due milioni di adolescenti italiani soffrono di disturbi del comportamento alimentare (DCA)”. Questo è il risultato dell’incontro nazionale che si è tenuto a Bologna nei primi giorni di questo mese. Inoltre, da una ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è emerso che le patologie di tipo anoressico e bulimico rappresentano la seconda causa di morte tra gli adolescenti, dopo gli incidenti stradali.
Dagli studi di quest’ ultimo anno è emerso come si sia abbassata notevolmente l’età di insorgenza dei problemi del comportamento alimentare: nel 40% dei casi si manifestano tra i 15 e i 19 anni ma sempre più spesso i sintomi sembrano comparire già tra gli 8 e i 12 anni. A soffrirne sono soprattutto le ragazze ma anche il numero di ragazzi affetto da tale disturbo è in aumento. Insomma: sempre più adolescenti si ammalano di disturbi del comportamento alimentare.
Indipendentemente dal sesso, in questi ragazzi si può osservare una crescente ed esagerata preoccupazione per il cibo, ossessione per il proprio peso che spesso porta a diete estreme, dispercezione corporea, eccessiva attenzione al proprio corpo, esagerata ed incontrollata attività fisica. A questi comportamenti si aggiungono poi repentini cambiamenti emotivi, irritabilità, tristezza, sentimenti di colpa e di vergogna, ipersensibilità verso qualsiasi tipo di critica, ritiro sociale e relativo isolamento. I disturbi del comportamento alimentare o disturbi alimentari psicogeni (DAP) comprendono l’anoressia nervosa, la bulimia, il binge eating (disturbo da alimentazione incontrollato) e l’obesità.
Il fattore psicologico è determinante rispetto all’eziologia di questi disturbi ma anche i fattori biologici e sociali sembrano pesare notevolmente. Non si può infatti trascurare l’influenza dell’attuale società, esageratamente centrata sull’apparire, sulla forma fisica e su modelli corporei irreali.
Tale fenomeno clinico è sottostimato, si tende a sottovalutare l’alto rischio di recidiva e la conseguente cronicizzazione del disturbo. Sono pertanto sempre più necessari interventi di prevenzione e di diagnosi precoce tesi a sensibilizzare i più giovani ad una sana alimentazione e ad uno stile alimentare corretto. Al momento, questo sembrerebbe essere l’unico modo per arrestare il vertiginoso incremento della percentuale di giovani affetti da disturbi del comportamento alimentare.

Noi, gli emo.

Dott.ssa Giorgia Aloisio



-          Ciao zi’…
-          Guarda come sei cambiata… t’avevo lasciata così… [mostra una fotografia] … e sei diventata così… Ma come sei diventata?
-          So’ diventata emo

Chi ha visto il divertente film di Carlo Verdone Io Loro e Lara (2010) sicuramente ricorderà questo spassoso 'scontro' generazionale. In realtà, dovremmo precisare che la cosiddetta ‘cultura emo’ è nata circa trent’anni prima del film, negli anni ’80, negli Stati Uniti (nello specifico, a Washington D.C.). I giovani emo (pronuncia: /ˈiːmoʊ/), ragazzi di solito tra i 15 e i 20 anni di età, si caratterizzano per i capelli corvini, più o meno lunghi, lisci e con una frangia asimmetrica davanti agli occhi, un trucco scuro tendente al nero con scarpe da ginnastica e altri accessori (che spesso raffigurano teschi o croci) dello stesso colore; un abbigliamento da ‘skater’, quindi jeans aderenti, cintura borchiata. 

Gli emo derivano il loro nome proprio dal genere musicale emo (che fa parte del punk rock) il quale, a propria volta, rappresenta l’abbreviazione del termne ‘emotional’ (emotivo). 

Bill Kaulitz dei Tokio Hotel

Appaio, dunque sono: chi è emo lo è anche nel modo di sentire, pensare, fare. Molto diffusi tra questi ragazzi sono gesti insoliti e anticonvenzionali come piangere davanti agli altri (aspetto emotivo di questa tendenza), baciare persone dello stesso sesso, procurarsi tagli con lamette da rasoio. Così come i dark e altre modalità diffuse nel mondo giovanile, anche gli emo mostrano una certa ‘attrazione’ per il macabro e il tema della morte: l’abitudine di tagliarsi o tagliuzzarsi per far uscire una certa quantità sangue è una modalità molto diffusa tra loro, così come lo è tra le persone con diagnosi di area borderline: questi gesti autolesionistici, se da un lato sembrano in qualche modo ‘sedare’ l’ansia o l’angoscia che tali individui provano e farli sentire 'vivi', dall’altro sono comportamenti che colpiscono fortemente chi sta loro accanto e potrebbero essere interpretati come una più o meno celata e maldestra richiesta d’aiuto.


Come ogni moda giovanile (o meglio, adolescenziale) che si rispetti, l’individuo cerca di portare l’attenzione degli adulti su di sé per poi negarlo, un modo per dichiarare una netta separazione dal mondo infantile ma anche una messa in discussione di quello adulto. Nulla di insolito né di nuovo, dal momento che ci troviamo di fronte ad un comportamento dei teenager di oggi che, come quelli di ieri, nuotano in mille incertezze, tra cambiamenti psicofisici, paura del nuovo, desiderio di affermazione, nel tentativo di esprimere in forme più o meno condivise questo uragano 'emo-zionale'.

martedì 12 novembre 2013

Donne e paesi arabi: il sondaggio della Fondazione Thomson Reuters (novembre 2013)


Dal sondaggio della Fondazione Thomson Reuters emerge un quadro poco rassicurante sulla condizione delle donne nel mondo islamico: nonostante le numerose rivolte che si sono succedute dal 2010 ad oggi (le cosiddette ‘Primavere arabe’), in 22 paesi della penisola arabica la donna vive (o sopravvive) in condizioni sociali, psicologiche, culturali e umane completamente inaccettabili. L’Egitto è al primo posto in questa speciale classifica "al ribasso": in questo Paese, apparentemente vicino al mondo Occidentale, subito dopo la fine del regime Mubarak si è registrato un aumento di violenze sessuali, mutilazioni genitali e, più in generale, un complessivo rigurgito di fondamentalismo islamico, il quale, come sappiamo, osteggia qualunque tipo di emancipazione femminile.



A seguire, al secondo posto, troviamo l’Iraq, oggi ancor più pericoloso di quanto non lo fosse durante il regime di Saddam Hussein. Poi ci sono l’Arabia Saudita (dove alle donne è addirittura fatto divieto di guidare l’auto), la Siria, lo Yemen.
Il paese a maggioranza islamica in cui, invece, alle donne è riservato il trattamento migliore è rappresentato dal piccolo paradiso delle Isole Comore, un tempo francesi, oggi africane e di fede musulmana. In questo splendido luogo, immerso nell’Oceano Indiano, le donne possono divorziare e partecipare attivamente alla vita politica. A seguire, altri paesi islamici ricchi e stabili, come Kuwait, Oman, Qatar.
 


Fonti: sussidiario.net – corriere.it 

lunedì 4 novembre 2013

Zoe: una maratoneta sempre in pista...!

Dott.ssa Giorgia Aloisio

Maratona di New York

Zoe Koplowitz, anche quest’anno, ha corso la maratona di New York, sua città natale. Si tratta di un'abitudine, ormai: questa è la sua ventiquattresima volta. Nel 2000 ha fissato il record femminile mondiale della maratona più lenta del mondo, durata 36 ore e 9 minuti: dovete sapere che Zoe è una maratoneta speciale perché da più di trent’anni è affetta da sclerosi multipla, patologia autoimmune cronica che comporta la progressiva perdita della mielina. La mielina è una sostanza che trasporta velocemente il segnale elettrico tra le cellule nervose del cervello e del midollo spinale. In questa condizione, il sistema autoimmune 'corrode' la mielina che si assottiglia sempre più col passare del tempo: questo riduce la velocità con la quale viaggia il segnale nervoso.



Classe ‘48, Zoe è autrice di The Winning Spirit—Life Lessons Learned In Last Place; durante le maratone, viene solitamente ‘scortata’ da amici, sostenitori, parenti, fan e da un piccolo gruppo di volontari che la segue nel tragitto senza mai perderla d'occhio. 
Nel suo blog, la maratoneta elenca alcuni preziosi strumenti psicologici a suo giudizio indispensabili per compiere queste avventure sportive: il primo di questi strumenti è mantenere vivo dentro di sé ‘un grande sogno da realizzare’. 

La straordinaria forza di volontà insieme alla grandiosa resistenza fisica sono di esempio per tutte le persone, con o senza disabilità: complimenti Zoe! 

Zoe alla fine di una maratona.


giovedì 31 ottobre 2013

Mens sana in Corpore sano: sport e intelligenza


Un team di ricercatori americani ha finalmente reso noto il perché praticare sport rende le persone intelligenti: tutto merito dell’irisina.
Dallo studio americano diretto da Bruce Spiegelman del Dana-Faber Cancer Institute e Harvard Medical School di Boston, recentemente pubblicato sulla rivista Cell Metabolism, emerge che l’esercizio fisico stimola la sintesi dell’irisina, una molecola neuroprotettiva che potenzia le funzioni cognitive, favorendo l’apprendimento e la memoria. Sembrerebbe inoltre che la maggiore concentrazione di irisina a sua volta stimolerebbe l'aumento nel cervello di un fattore di fondamentale importanza per il potenziamento della memoria e dell'apprendimento: il fattore neutrofico BDNF.
Questo studio apporta dunque un ulteriore valore aggiunto all’attività sportiva.
Lo sport, oltre tutti i benefici a livello fisico, risulta essere un’ottima occasione per approfondire e migliorare la conoscenza di sé così da favorire anche notevoli vantaggi psichici ed educativi.
Ha un ruolo fondamentale e strategico rispetto alla crescita dei ragazzi e favorisce l’acquisizione di caratteristiche psicologiche e comportamentali che sono di fondamentale aiuto alla costruzione di una personalità sana.
I vantaggi del praticare sport sono davvero tanti. In primis favorisce la presa di contatto con se stessi, con la propria forza e la propria determinazione, oltre che con i propri limiti e poi insegna a riconoscere e a gestire le proprie emozioni, sia positive che negative.
Essendo inoltre un’attività che richiede grande impegno, responsabilità e il rispetto di regole ben precise, favorisce l’interiorizzazione di un sistema di norme e valori che abituano la persona ai rapporti con il mondo circostante. 
Anche se alcuni sport sono individuali si svolgono necessariamente in un contesto sociale (palestra, campetti, piscina) e questo stimola le relazioni interpersonali, sia con i pari che con gli adulti diversi dai genitori e dagli insegnanti. A ciò consegue lo sviluppo di competenze sociali e la capacità di lavorare in gruppo che sono di fondamentale utilità nella vita di ognuno di noi.  Inoltre lo sport aiuta a pianificare e ad organizzare il tempo (concetto piuttosto aleatorio per i giovanissimi), aiuta a lavorare per obiettivi e stimola la capacità di problem solving.
Insomma, il suggerimento che Giovenale fa nella sua satira è assolutamente funzionale all’essere della persona.

mercoledì 23 ottobre 2013

Slot machine? No grazie!




Cosa significa Slot-mob? Si tratta di un gruppo di persone costituito da docenti universitari romani di Economia, associazioni e movimenti studenteschi che premiano i locali senza slot-machine. Lo scopo di questo movimento è sensibilizzare le persone al pervasivo e diffuso problema della dipendenza da gioco (“ludopatia”), ormai una vera e propria emergenza sociale: questo genere di attività è spesso gestito dalla criminalità organizzata, con il consenso indiretto dello Stato che se da un lato è interessato a concedere autorizzazioni per giovarsi delle imposte che ne derivano, dall’altro deve in seguito investire veri e propri capitali per curare i danni che ne derivano alle persone (spesso studenti, disoccupati, anziani).



Gli Slot-mob combattono questa guerra con dolcezza: il loro modo per convincere i proprietari dei bar a non accettare di avere le Slot machine nel loro esercizio commerciale e compensarli dei mancati introiti consiste nell’organizzare grandi colazioni al bar… il 28 settembre 2013, a Milano, si sono riunite e hanno fatto colazione in un caffè di viale Jenner circa 300 persone!
Gli Slot-mob sono partiti da Biella il 27 settembre ’13 per raggiungere Milano, Teramo, Cagliari, Palermo, Catania, Trento, Reggio Emilia, Cremona, Roma e molte altre città.

Il nostro blog sostiene senza indugi questa giusta iniziativa!

Per maggiori informazioni: http://www.nexteconomia.org/slots-mob

Per una descrizione della ludopatia e dei suoi sintomi: sito del Ministero della Salute

martedì 15 ottobre 2013

I cani provano emozioni? Certamente!

Dott.ssa Giorgia Aloisio


I cani provano emozioni che somigliano a quelle dei bambini. Ne è convinto Gregory Berns, neuroscienziato della Emory University (Georgia, USA); questo dato è anche confermato dalle risonanze magnetiche alle quali sono stati sottoposte decine di cani negli ultimi due anni. Questa ricerca è stata pubblicata nell’ottobre ’13 sul New York Times con l’evocativo titolo Anche i cani sono persone. Questi esperimenti hanno rivelato l’attivazione del nucleo caudato, minuscola area immersa nella profondità del cervello che si mette in moto quando le persone provano emozioni. E da oggi, sappiamo che questo vale anche per i nostri cari amici cagnolini.


Diciamo pure addio alle  teorie di Ivan Pavlov, notissimo fisiologo russo che scoprì il riflesso condizionato e che spiegava le reazioni (emotive) dei cani come nient’altro se non banali risposte automatiche ad uno stimolo nervoso.
Sull’efficacia emozionale e sulla straordinaria ricchezza che il rapporto con gli animali può produrre, non avevamo certo bisogno di conferme scientifiche: chi possiede animali domestici conosce in prima persona quel magico, immediato e segreto legame emotivo che intreccia le vite umane con quelle animali! Chi vorrebbe averne uno e non lo ha (ancora) non avrà certo dimenticato le intense pagine dell’Odissea, quando Omero descrive il fido Argo, dopo vent’anni di lontananza dal suo padrone, che riconosce Ulisse travestito da mendicante e muore a seguito della irresistibile scossa emotiva; chi ha visto il commovente film ‘Hachiko’ ricorderà il tenace e appassionato attaccamento di Hachi al suo padrone scomparso.


Da sempre leali accompagnatori di persone non vedenti, i cani, oggi, ci sembrano più umani che in passato e con il pretesto della ricerca scientifica possiamo confortarci: ecco come mai il legame tra questi affettuosi animali e i loro padroni è così intenso e da sempre confermato in ogni luogo del globo. Cosa dire, poi, della pet-therapy, la terapia nella quale sono gli animali a ‘curare’ gli esseri umani? Delfini, cani, gatti, cavalli, conigli, sono e sono stati impiegati per affrontare alcuni tra i più diffusi disagi, soprattutto nella popolazione infantile, quali autismo, depressione, deficit mentale, isolamento sociale, ma anche nel caso di soggetti detenuti o da lungo tempo ospedalizzati. La pet-therapy è consigliata sia da medici che da psicologi, e funziona.
Il rapporto che unisce l’uomo all'animale, la comunicazione verbale e non verbale che si stabiliscono tra questi due poli, sono gli ingredienti che ci spingono a condividere la nostra vita con questi intuitivi, sensibili, adorabili amici a quattro zampe.



mercoledì 2 ottobre 2013

Dall’omosessualità all’omofobia



In queste ultime settimane mi sono soffermata a riflettere, in più di un’occasione, sul concetto di omofobia. Il tutto ha avuto inizio con un confronto tra amici in merito al nuovo Disegno di Legge in materia, approvato alla Camera e ora al Senato. Hanno fatto poi seguito una giornata studio organizzata dall’Ordine degli Psicologi del Lazio e la segnalazione, da parte di un’amica, della mostra “Masculin/Masculin” al museo d'Orsay dal 24 settembre al 2 gennaio. 

 

Nonostante sia ormai riconosciuto a livello mondiale che l’orientamento sessuale non è una scelta e che l’omosessualità è una variante normale della sessualità, l’avversione per i gay e le lesbiche persiste.


…Ma l’omofobia cos’è?

L’omofobia (dal greco όμός = stesso e φόβος = timore, paura) denota “disagio, svalutazione e avversione, su base psicologico-individuale e/o ideologico-collettiva, nei confronti delle persone omosessuali e dell’omosessualità stessa.” Il pensiero omofobico sembra essere dunque radicato nel genere umano e difficile da contrastare, sia su un piano personale che sociale/collettivo. Si riflette nelle istituzioni e nelle strutture portanti della nostra società: nella famiglia, nella scuola, nell'ambiente lavorativo, nella vita religiosa, nello sport e nei mass media.
Per dirlo alla Jung sembra essere consolidato nell’inconscio collettivo.

I sentimenti negativi, l’intolleranza e la rabbia nei confronti di gay e lesbiche sono purtroppo all’ordine del giorno: a volte si manifestano attraverso l’uso di un linguaggio e di slang offensivi, altre volte si traducono in atteggiamenti e comportamenti omofobici carichi di aggressività che caratterizzano numerosi episodi di cronaca.
Se questo panorama è già di per sé critico, diventa ancor più inquietante se si considera che l'insulto, la violenza psicologia e la discriminazione verso gli omosessuali vengono tacitamente approvati e ritenuti normali anche tra gli stessi adolescenti che in molte occasioni ritroviamo come autori di numerosi casi di bullismo omofobico.


A questo delicato scenario si aggiunge l’omofobia interiorizzata, una forma subdola di omofobia che consiste nell’interiorizzazione, più o meno inconsapevole, del pregiudizio che porta a vivere in modo conflittuale la propria omosessualità, fino a volerla negare o contrastare.
Possiamo ritenere che l'omofobia diventa omofobia interiorizzata attraverso il pregiudizio, la disinformazione, l'isolamento e la condanna sociale.
L’introiezione di un pensiero omofobico così strutturato comporta diverse conseguenze sulla psiche della persona omosessuale quali una scarsa accettazione e stima di sé; sentimenti d’incertezza, inferiorità e vergogna; la credenza che l'omosessualità sia sbagliata, sia qualcosa da negare e da nascondere; la non accettazione della propria omosessualità perché causa di un senso di ansia, colpa, vergogna, angoscia e tensione interiore; l’incapacità di comunicare agli altri il proprio orientamento (coming out); la convinzione di essere rifiutati a causa della propria omosessualità; il convincimento di essere inadeguati e indegni di essere amati e l’identificazione con tutti gli stereotipi denigratori derivanti dai pensieri omofobici.
In questo senso il proprio pregiudizio finisce per impedire la formazione di un'identità omosessuale positiva.

È semplice dedurre come l’esperienza di rifiuto e di oppressione possano determinare affaticamento emotivo, vissuti depressivi e di rabbia nella cultura gay, come diretta conseguenza delle manifestazioni del dovere essere invisibile ma è inaccettabile che ad oggi un omosessuale debba subire anche l’influenza omofobica e castrante dell’inconscio collettivo e sentirsi schiacciata da essa. Dunque bisogna intervenire con campagne di sensibilizzazione, soprattutto tra i giovanissimi, e prendere i dovuti provvedimenti per cercare di destrutturare il pensiero omofobico sia personale che collettivo.
 

Dott.ssa Alessandra Paladino

mercoledì 25 settembre 2013

Alunni in fuga: una riflessione sulla disabilità.

Avendo da più di dieci anni esperienza con alunni disabili, rimango costantemente sintonizzata sugli avvenimenti che provengono da questo tipo di realtà. Mi riferisco, nello specifico, a due notizie che mi hanno colpita: la prima, relativa al cartello affisso in una scuola privata ischitana che recitava ‘La scuola è chiusa per tutti, perché c'è la giornata dei disabili. Sono molto malati quindi i bambini si impressionano’, la seconda relativa ad alcuni genitori che hanno deciso di ritirare 6 bambini da una scuola elementare napoletana perché in classe c’era un alunno disabile (probabilmente autistico, ma le notizie non entrano nel dettaglio).


Chi di noi non ha mai avuto un compagno di classe o di scuola disabile? Io, per fare un esempio, sono stata in banco con un ragazzo con sindrome di Down, alle elementari.
A volte la disabilità include comportamenti fastidiosi per chi la vive da vicino: aggressività, rumorosità, odori/perdite sgradevoli e quant’altro. Altre volte, la ‘anormalità’ è silenziosa, come nel caso delle disabilità di tipo cognitivo (ritardo mentale), sensoriali (sordità, cecità, sordocecità), motorie (tetraparesi, sclerosi, …). Il mondo è bello perché vario: questo vale anche per la disabilità. Non è possibile vivere una vita senza aver mai avuto vicino un disabile: ormai, da alcuni anni, anche al lavoro ci troviamo a contatto con persone disabili, dal momento che una percentuale dei posti di lavoro è loro riservata.


A volte preferiamo dimenticare le ‘disabilità’ che ognuno di noi ha o ha avuto nella propria famiglia: nonni sordi o con una demenza, zii depressi, parenti affetti da franche patologie somatiche.

Ma allora, perché privare un figlio di questo tipo di esperienza, dal momento che, prima o poi, ci si dovrà comunque incontrare? Vogliamo far credere ai bambini che la disabilità, l’imperfezione, la fragilità umane non fanno parte di questo mondo? Procedendo di questo passo rischiamo di creare noi una disabilità ai nostri figli, che poi altro non è se non la meravigliosa ‘campana di vetro’ che ci illude di proteggerli: li priviamo di esperienze basilari, come il contatto con il disagio e la sofferenza empatica che fanno parte dell’avventura umana, senza sconti per nessuno.
Senza dubbio non è semplice rispondere alle domande di un bambino ‘normale’ che entra per la prima volta in contatto con un compagno disabile; i genitori sono costretti a rispondere alle sue domande, a dare un senso a ciò che spesso risulta del tutto immotivato, ad accogliere il suo turbamento, il senso di impotenza e lo sconvolgimento che è normale provare in situazioni di questo genere. Tutto questo fa parte della vita: genitori e maestri sono deputati ad introdurre i più giovani nel mondo, con le dovute cautele, certo, ma anche con le necessarie premesse e i dovuti incontri.

Per evitare che questi incontri si tramutino in ‘scontri’ sarebbe bene che il contatto e l’integrazione abili/disabili avvenga in età precoce, in modalità condivisa anche con gli altri coetanei (esempio: facendo turnare i vari compagni di banco dell’alunno disabile) e in un clima di inclusione. E sono proprio gli adulti (docenti e genitori) che dovrebbero facilitare questo processo di inserimento e accoglienza.


mercoledì 18 settembre 2013

Chiedere aiuto: una scelta preziosa


La richiesta di una consultazione psicologica è un momento fondamentale, che giocherà un ruolo di primo piano sulle scelte future del soggetto e sull’eventuale cammino psicologico.


Quando una persona decide di consultare uno psicologo, ciò avviene perché un vecchio equilibrio che prima funzionava, ora non regge più: il soggetto non può più appoggiarsi a nessun tipo di appiglio e prova la sensazione che non ci siano più vie d’uscita. La psicoterapia, dunque, può assumere anche l’aspetto dell’ultima spiaggia, l’ultimo doloroso ed incerto tentativo di dare (forse) pace alla propria inquietudine. A volte questo percorso ci viene suggerito da un amico, da un familiare, altre volte dal medico curante: altre ancora siamo noi stessi a sentirne per primi l’esigenza. La ricerca può assumere allora diverse sfumature: ci sentiamo imbarazzati per la nostra “insolita” richiesta, possiamo provare senso di colpa perché forse quei problemi “non esistono, ed in ogni caso avremmo dovuto risolverli da soli”, possiamo sentirci confusi sulla stessa richiesta che esplicitiamo, né sappiamo con precisione cosa ci aspetterà.



Quando chiedo aiuto a una persona ciò significa che mi trovo in difficoltà e che, date le mie condizioni, non ho modo di “aiutarmi da solo”: significa riconoscere la propria impotenza, o se vogliamo la propria non – onnipotenza di fronte alle difficoltà.
Se ci pensiamo bene, questo ci succede quasi quotidianamente, e neanche ce ne accorgiamo: quando ci si rompe un elettrodomestico, quando non funziona più un utensile, quando si consuma un oggetto d’uso comune, noi ricorriamo agli altri ed alle loro competenze, conoscenze, abilità. Così come quando ci troviamo di fronte ad un disturbo fisico, siamo spinti a consultare un medico specialista. Ma la richiesta di consultazione terapeutica ci crea non pochi problemi. Perché chiediamo aiuto per una caldaia in panne e siamo invece ritrosi a chiedere una consulenza psicologica?



Senza dubbio questa richiesta ha il proprio prezzo: ma è un prezzo che presto o tardi potrà diventare un valore, un bene, una sicurezza, una salvezza. Soprattutto un gesto positivo che facciamo nei nostri confronti. Un gesto che ci fa capire quanto, in fondo, già ci stiamo aiutando, perché abbiamo compreso di essere in difficoltà.
Un percorso terapeutico può avere una durata più o meno lunga: può durare alcuni mesi o numerosi anni. Ma questo tempo, qualunque sia la sua durata, è per noi prezioso perché ci facilita la conoscenza di noi stessi, dei nostri limiti ma anche delle nostre risorse, delle possibilità di cui disponiamo e che ancora non abbiamo avuto modo di conoscere.



Quando conosciamo noi stessi, il mondo ci fa meno paura, ed anche le scelte più complesse, prima inconcepibili, ci sembrano pensabili, quasi possibili, perché ne siamo responsabili ed abbiamo la forza di sostenere il peso di queste responsabilità.
Non sempre è sufficiente intraprendere un cammino psicologico per emergere dal buio che ci opprime: è anche possibile che sia necessario un consulto psichiatrico e, di conseguenza, una terapia farmacologica da affiancare a quella psicologica. Ma non bisogna dimenticare che in entrambi i casi stiamo “curando” la nostra psiche ed il nostro corpo (indissolubilmente legati), quindi noi stessi.


martedì 17 settembre 2013

Come parlare di Psicoterapia?


Parlare di psicoterapia non è cosa semplice!
Le tecniche terapeutiche sono tante e per i non addetti ai lavori non è facile comprendere le sfumature e le peculiarità di ogni singolo approccio.
Chi chiede una consultazione psicologica ha il diritto di essere adeguatamente informato per poter scegliere l’orientamento e il percorso più indicato allo specifico stato psichico e alla propria persona.
Il terapeuta è tenuto a fornire una chiara definizione della psicoterapia e ad essere più esaustivo possibile così da aiutare il paziente nella scelta del proprio percorso terapeutico. 
In queste circostanze il professionista realizza che è superfluo ricorrere alle terminologie tecniche apprese durante gli anni di formazione o durante le supervisioni con i grandi guru della psicologia. Il terapeuta deve essere, deve sapere e deve saper fare, cioè deve riuscire ad accogliere empaticamente la persona che ha davanti senza ledere in alcun modo la sua sensibilità e accompagnarlo verso un nuovo cammino, che sia per lui risolutivo. 
Alla luce di queste considerazioni mi sono interrogata più volte su come ridefinire un concetto così importante e allo stesso tempo così complesso per poi poterlo rimandare serenamente ai miei pazienti.
Dopo alcune riflessioni, proprio durante la pratica clinica, in colloquio con un mio paziente, ho ritenuto di poter affermare che “tramite la psicoterapia il terapeuta aiuta il paziente a riscrivere le note per comporre una nuova melodia e, su questa nuova melodia, reinventare i passi, gli schemi e la scena per poi giungere a produrre una nuova coreografia. In questo modo è possibile sostenere il paziente nel danzare la nuova vita. (Paladino, 2013).


Edgar Degas, dettaglio “l’étoile”
Dott.ssa Alessandra Paladino 

giovedì 12 settembre 2013

L’Arteterpia come libera espressione del Sé


“Attraverso l'arteterapia si ha la possibilità di attivare risorse che tutti possediamo: la capacità di elaborare il proprio vissuto, dandogli una forma, e di trasmetterlo creativamente agli altri. Si tratta di un processo educativo, laddove “educare” sta per educere, “portare fuori: far emergere la consapevolezza ed una maggior conoscenza di sé mediante la pratica espressiva, l'osservazione ed il confronto.” (dagli Atti del Convegno Nazionale sulle Arti Terapie nella scuola - Carpi, 7 e 8 Settembre 2001).

Lavoro di Federica, 4 anni


Attraverso l'espressione artistica è possibile incrementare la consapevolezza di sé, fronteggiare situazioni di difficoltà e stress, esperienze traumatiche, migliorare le abilità cognitive e godere del piacere che la creatività artistica, affermando la vita, porta con sé. L’arteterapia, infatti, è un intervento di aiuto e di sostegno a carattere non-verbale che utilizza materiali artistici e si fonda sul presupposto che il processo creativo messo in atto nel fare arte produce benessere e salute, dunque migliora la qualità della vita. 

Quando si parla di arteterapia si intende quell'insieme di tecniche e metodologie che consentono, a chi ne usufruisce, l’espressione del sé, il sostegno dell’Io e lo sviluppo dell’autostima. L’attività artistica, come mezzo terapeutico, consente il recupero e la crescita della persona nella sua sfera emotiva, affettiva e relazionale soprattutto grazie alla possibilità di percepirsi come individuo capace di fare e di esprimere. Questo fare è fondamentale! Grande attenzione viene posta al processo artistico, inteso come processo creativo, e non è necessario dare un’interpretazione al prodotto poiché è l'atto di produrre un'impronta creativa a rendere terapeutico il percorso. Il prodotto può essere poi interpretato ma non è fondamentale per il processo di crescita e di integrazione dell’Io. In arteterapia, quindi durante il processo creativo, è indispensabile riuscire a legare e coniugare gestualità, espressività, immaginazione ed emozioni. In questa ottica, ogni espressione dell'anima e della propria umanità, fosse anche solo un semplice segno o un insieme caotico di linee e colori, è la manifestazione autentica di un sentire profondo, ed è attraverso questo processo di simbolizzazione che le emozioni e i processi cognitivi trovano la loro libera espressione.
 
L’arte aiuta ad esprimere quello che con le parole non si riesce a comunicare.


Dott.ssa Alessandra Paladino

L’angoscia dipinta da Edvard Munch: l’ Urlo.

Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue, mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto, sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura. 
                                                                        (Tratto dal diario di E. Munch) 

… è così che Edvard Munch partorisce il suo più celebre dipinto: L'urlo, detto anche Il grido, il cui titolo originale, in norvegese, è Skrik.




Questo quadro è uno dei più famosi dell’espressionismo nordico. Tale capolavoro è stato realizzato nel 1893 su cartone con olio, tempera e pastello ed è parte di una serie di opere denominate "Il Fregio della Vita", in cui Munch ha esplorato i temi di vita, amore, paura, morte e malinconia. Come per altre opere, Munch, ne ha dipinte più versioni tra cui una esposta alla Galleria Nazionale di Oslo ed una al Museo Munch della stessa città.

L’immagine del Grido è diventata un luogo dell’immaginario collettivo: dilaga in infiniti gadget pubblicitari, dal cinema alle magliette, dalle copertine dei libri agli striscioni contro la guerra. È diventata una sorta di figura apotropaica che accompagna l’uomo nella sua quotidianità con l’intento di esorcizzare le paure e i fantasmi  più reconditi.
In quest’opera la pittura, per la prima volta, trova i mezzi per esprimere nel suo emergere l’immagine della catastrofe interiore, per descrivere il collasso del mondo interno e della realtà in tutto il suo impeto emotivo. Munch riesce a far vedere il grido, lo costruisce nelle sue linee di forza, nel potere di deformazione degli oggetti e nella fissità dello sguardo che si perde in quella che è l'esperienza del panico. Munch riesce anche a trasmettere il suono dell’urlo che si percepisce in modo violento e irresistibile. In quest’opera non è solo l'uomo ad urlare, ma tutta la natura si anima di un grido vuoto ma allo stesso tempo tangibile. La figura umana, le forme, gli oggetti e i colori tutti gridano esprimendo la stessa emozione. Sappiamo che i colori esercitano sui processi associativi degli impulsi simili a quelli degli affetti nella vita quotidiana e qui il rosso, con tutte le sue sfumature, predomina. Sembra che nel rosso del tramonto sia stato proiettato violentemente tutto il dolore che la mente non ha saputo contenere lasciando supporre il prevalere di una risposta colore puro, esattamente uno shock al rosso, per parlare in termini Rorschachiani. Un indice, questo, di profondi disturbi nella sfera affettiva, aggressiva e sessuale, che tradisce la possibilità di violente tempeste emotive, aspetti certo non estranei alla vita di Munch. Considerando che quest’opera è assolutamente autobiografica, l’interpretazione psicoanalitica  potrebbe essere che forse quella sera (pochi mesi dopo la morte del padre e con il dolore ancora bruciante) Munch, ispirato dalla natura, non vide solo un tramonto rosso sangue, ma il fantasma stesso della madre morta, che insieme a quello della sorella, teneva nascosti in una tomba psichica, magicamente inghiottiti, per non vederne la perdita troppo dolorosa. Per questo l'uomo che grida ha gli occhi spalancati, gli occhi di colui che hanno visto ciò che non avrebbero voluto vedere mai; la visione di quei fantasmi, ingoiati, espulsi dentro di sé, nascosti in una cripta.

Nel dipingere quest’opera, Munch, sembra quindi smentire clamorosamente il giudizio di Schopenhauer, che riteneva impossibile la riproduzione del grido nelle arti figurative. Munch in alcune pagine del suo diario scrive: “…Ho letto i testi dei filosofi della Scandinavia e ho sentito parlare delle teorie sulla psiche umana sviluppate dal dottor Freud, a Vienna. Io avverto un profondo senso di malessere, che non saprei descrivere a parole, ma che invece so benissimo dipingere”. Egli infatti scrive: “I miei quadri sono i miei diari” tanto che il Fregio della vita finisce per sostituire gli appunti autobiografici.

Avvicinarsi al Grido è una esperienza affascinante e complessa allo stesso tempo; l’accostarsi ad esso può coinvolgere, esaltare o turbare. In esso è condensato tutto il rapporto angoscioso che l’artista avverte nei confronti della vita e attraverso la sua opera riesce a dar voce a un urlo che in molti provano durante il corso della propria vita infatti, indubbia è la sua capacità di trasmettere sensazioni universali. Qui è ben rappresentata tutta l’angoscia che si racchiude in uno spirito tormentato che vuole esplodere in un grido liberatorio pur non essendoci alcun elemento che possa far supporre in una conseguente liberazione consolatoria. L’urlo di questo quadro è una intensa esplosione di energia psichica, un insieme di follia, malattia e morte infatti Munch scrive: “…soltanto un pazzo avrebbe potuto dipingerlo”.

Edvard Munch
Edvard Munch è il pittore dell'angoscia. Tale stato psichico caratterizza un po’ tutta la sua esistenza a causa di una vita tormentata da perdite e dolore: la madre muore mentre è ancora bambino e, adolescente, assiste alla morte della giovane sorella, logorata dalla tubercolosi. Questi episodi segnano la sua vita e condizionano la sua sensibilità fino ad influenzare i suoi quadri. Il Grido ne è l’esempio eclatante: qui rappresenta un’esperienza reale di una sera d'estate del 1893, pochi mesi dopo la morte del padre. L'arte di Munch nasce quindi come autoritratto dell'inferno interiore, come immagine di un interno lacerato, frammentato, da perdite non ricomponibili nel lutto e da traumi troppo difficili da elaborare. Munch stesso scrive: “La mia pittura è in realtà un esame di coscienza e un tentativo di comprendere i miei rapporti con l’esistenza. È dunque una forma di egoismo, ma spero sempre di riuscire, grazie ad essa, ad aiutare gli altri a vedere chiaro”. Si può ritenere dunque che l’autore intenda l’opera come interpretazione e la pittura come autoanalisi e cura dell’anima. Essa, in fondo risponde all’unico vero bisogno dell’artista: quello di ricomporre il proprio mondo interno, di ricreare i propri oggetti d’amore lacerati, distrutti e perduti. Il noto legame tra autobiografia e arte, in Munch, è allora qualcosa di più di una ricostruzione per immagini, la sua opera non è semplice rappresentazione di un evento, uno stato d’animo o un conflitto, piuttosto è disvelamento e messa in forma della complessa trama di forze che agitano la vita. Si potrebbe  anche dire che l’opera di Munch è la trasformazione in pittura delle passioni elementari e quindi interpretazione della vicenda umana.

Lo stile di Munch è legato all’esigenza di esprimere contenuti emotivi, la sua innovazione stilistica è proprio la necessità espressiva interiore, e la sua tensione pitturale concreta organizza e controlla la vicenda emotiva nella costante ricerca di nuovi rapporti con lo spazio e l’immagine. In questa corrispondenza tra interno ed esterno, tra fantasma ed opera, sta forse il segreto dello stile di Munch, fatto di scarti improvvisi, recuperi, incertezze. Esso non è mai completamente aderente agli stilemi dell’epoca, né mai completamente indifferente. Il suo stile resta insieme naturalista, impressionista, simbolista, espressionista e niente di tutto ciò. Come ha dichiarato Schmidt-Rottluff: “Munch resta un fenomeno unico”.

venerdì 6 settembre 2013

In occasione di una triste ricorrenza, per ripensare alle Torri Gemelle … insieme a Philippe Petit.


Una sala d'attesa. Un giornale sfogliato in attesa della visita dentistica. E un ragazzino che sbirciando tra quelle pagine progetta un folle volo: passeggiare su un cavo tra le torri. Quale torri? Quelle che secondo l'articolo letto sarebbero state costruite di lì a qualche anno a New York, nella Grande Mela; le Torri Gemelle del World Trade Center. 


Dopo aver “passeggiato” tra i due campanili di Notre Dame e in cima all'Harbour Bridge di Sidney qualche anno prima, nel 1974 Philippe Petit, scapestrato giocoliere, mimo, funambolo, amante del rischio e del pericolo progettò la passeggiata tra le Torri Gemelle: insieme ad una combriccola di pazzoidi come lui, studiò per lunghi mesi le distanze, penetrò con la truppa per studiare i luoghi, conoscere le persone, falsificare badge e permessi d'accesso per ingegneri mai esistiti. All'alba del 7 agosto di quell'anno, a più di 400 metri d'altezza, dopo aver fatto scagliare a un complice una freccia collegata ad una fune di ferro, Philippe realizzò la sua impresa: passeggiare tra le due torri. Attraversò quello spazio aereo per circa 8 volte, trascorse quasi un'ora su quel cavo, tra le nuvole, camminò, si distese e si rialzò: tutto sotto gli occhi increduli e sbigottiti dei passanti e dei telespettatori che seguivano la eccezionale, straordinaria diretta televisiva.

 
“Una personalità borderline”, avvezza a questo genere di pazzie, una testa calda... Numerosi i commenti, tesi alla ricerca di una spiegazione per quella incredibile impresa. Un'esperienza estrema, artistica, istrionica, ma comunque indimenticabile, oltre che del tutto irripetibile, oggi, alla luce dell'attentato che l'11 settembre 2001 distrusse i due grattacieli, oltre a spezzare la vita di migliaia di persone.

 
Nel 2008 l'avventura di Petit è diventata un docufilm che ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti da parte dei più importanti concorsi cinematografici del mondo: scene ricostruite e immagini di Philippe da giovane (durante i suoi estenuanti allenamenti fisici) oltre a momenti della passeggiata tra le Torri Gemelle ci fanno conoscere questo stravagante, coraggioso e solitario uomo che oggi è parte della storia, della cultura e dell'attualità del nostro tempo. 

 
Un suo pensiero:

Il filo non è ciò che si immagina. Non è l'universo della leggerezza, dello spazio, del sorriso.
È un mestiere
Sobrio, rude, scoraggiante.
E chi non vuole intraprendere una lotta accanita di sforzi inutili, pericoli profondi, trappole, chi non è pronto a dare tutto per sentirsi vivere, non ha bisogno di diventare funambolo.
Soprattutto non lo potrebbe.

Il video, doppiato in Italiano, è integralmente visibile su youtube: http://www.youtube.com/watch?v=H2KYVU36WHE


Buona visione!