venerdì 13 dicembre 2013
E' nata la nuova sezione Psicofilm!
Non perdete la nuova pagina dedicata ai film! La trovate al link http://www.nonsolopsicologia.blogspot.it/p/psicofilm.html oppure cliccando su Psicofilm nel menù a destra.
Appena pubblicato: PRISONERS | PRIGIONIERI, trama e breve commento a cura della dott.ssa Giorgia Aloisio.
Buona lettura!
Lo Staff.
giovedì 5 dicembre 2013
Disturbi Alimentari: si ammalano sempre più adolescenti!
La Società Italiana di Medicina
dell’Adolescenza (SIMA) delinea un quadro davvero allarmante: “due milioni di
adolescenti italiani soffrono di disturbi del comportamento alimentare (DCA)”.
Questo è il risultato dell’incontro nazionale che si è tenuto a Bologna nei
primi giorni di questo mese. Inoltre, da una ricerca dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS) è emerso che le patologie di tipo anoressico e
bulimico rappresentano la seconda causa di morte tra gli adolescenti, dopo gli
incidenti stradali.
Dagli studi di quest’ ultimo anno
è emerso come si sia abbassata notevolmente l’età di insorgenza dei problemi
del comportamento alimentare: nel 40% dei casi si manifestano tra i 15 e i 19
anni ma sempre più spesso i sintomi sembrano comparire già tra gli 8 e i 12
anni. A soffrirne sono soprattutto le ragazze ma anche il numero di ragazzi
affetto da tale disturbo è in aumento. Insomma: sempre più adolescenti si ammalano
di disturbi del comportamento alimentare.
Indipendentemente dal sesso, in
questi ragazzi si può osservare una crescente ed esagerata preoccupazione per
il cibo, ossessione per il proprio peso che spesso porta a diete estreme,
dispercezione corporea, eccessiva attenzione al proprio corpo, esagerata ed
incontrollata attività fisica. A questi comportamenti si aggiungono poi repentini
cambiamenti emotivi, irritabilità, tristezza, sentimenti di colpa e di
vergogna, ipersensibilità verso qualsiasi tipo di critica, ritiro sociale e
relativo isolamento. I disturbi del comportamento alimentare o disturbi
alimentari psicogeni (DAP) comprendono l’anoressia nervosa, la bulimia, il binge
eating (disturbo da alimentazione incontrollato) e l’obesità.
Il fattore psicologico è
determinante rispetto all’eziologia di questi disturbi ma anche i fattori
biologici e sociali sembrano pesare notevolmente. Non si può infatti trascurare
l’influenza dell’attuale società, esageratamente centrata sull’apparire, sulla
forma fisica e su modelli corporei irreali.
Tale fenomeno clinico è
sottostimato, si tende a sottovalutare l’alto rischio di recidiva e la
conseguente cronicizzazione del disturbo. Sono pertanto sempre più necessari
interventi di prevenzione e di diagnosi precoce tesi a sensibilizzare i più
giovani ad una sana alimentazione e ad uno stile alimentare corretto. Al
momento, questo sembrerebbe essere l’unico modo per arrestare il vertiginoso
incremento della percentuale di giovani affetti da disturbi del comportamento
alimentare.
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Roma, Italia
Noi, gli emo.
Dott.ssa Giorgia Aloisio
-
Ciao zi’…
-
Guarda come sei cambiata… t’avevo lasciata così… [mostra una fotografia] … e sei
diventata così… Ma come sei
diventata?
-
So’ diventata emo…
Chi ha visto il divertente film di Carlo Verdone Io Loro e Lara (2010) sicuramente ricorderà questo spassoso 'scontro' generazionale. In realtà, dovremmo precisare che la
cosiddetta ‘cultura emo’ è nata circa trent’anni prima del film, negli anni ’80, negli Stati Uniti (nello specifico, a Washington D.C.). I giovani emo (pronuncia:
/ˈiːmoʊ/), ragazzi di solito tra i
15 e i 20 anni di età, si caratterizzano per i capelli corvini, più o meno
lunghi, lisci e con una frangia asimmetrica davanti agli occhi, un trucco scuro
tendente al nero con scarpe da ginnastica e altri accessori (che
spesso raffigurano teschi o croci) dello stesso colore; un abbigliamento da ‘skater’, quindi jeans
aderenti, cintura borchiata.
Gli emo derivano il loro nome proprio dal genere
musicale emo (che fa parte del punk rock) il quale, a propria volta, rappresenta
l’abbreviazione del termne ‘emotional’ (emotivo).
![]() |
Bill Kaulitz dei Tokio Hotel |
Appaio,
dunque sono: chi è emo lo è anche nel modo di sentire, pensare, fare. Molto
diffusi tra questi ragazzi sono gesti insoliti e anticonvenzionali come piangere davanti agli
altri (aspetto emotivo di questa tendenza), baciare persone dello stesso sesso,
procurarsi tagli con lamette da rasoio. Così come i dark e altre modalità diffuse nel mondo giovanile, anche gli emo mostrano una certa ‘attrazione’ per il macabro e il tema della morte: l’abitudine di tagliarsi o tagliuzzarsi
per far uscire una certa quantità sangue è una modalità molto diffusa tra loro,
così come lo è tra le persone con diagnosi di area borderline: questi gesti
autolesionistici, se da un lato sembrano in qualche modo ‘sedare’ l’ansia o
l’angoscia che tali individui provano e farli sentire 'vivi', dall’altro sono comportamenti che
colpiscono fortemente chi sta loro accanto e potrebbero essere interpretati
come una più o meno celata e maldestra richiesta d’aiuto.
Come ogni moda giovanile (o meglio,
adolescenziale) che si rispetti, l’individuo cerca di portare l’attenzione
degli adulti su di sé per poi negarlo, un modo per dichiarare una netta
separazione dal mondo infantile ma anche una messa in discussione di quello
adulto. Nulla di insolito né di nuovo, dal momento che ci troviamo di fronte ad
un comportamento dei teenager di oggi che, come quelli di ieri, nuotano in mille
incertezze, tra cambiamenti psicofisici, paura del nuovo, desiderio di
affermazione, nel tentativo di esprimere in forme più o meno condivise questo uragano 'emo-zionale'.
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martedì 12 novembre 2013
Donne e paesi arabi: il sondaggio della Fondazione Thomson Reuters (novembre 2013)
Dal sondaggio della Fondazione Thomson Reuters emerge un quadro poco rassicurante sulla condizione delle donne nel mondo islamico: nonostante le numerose rivolte che si sono succedute dal 2010 ad oggi (le cosiddette ‘Primavere arabe’), in 22 paesi della penisola arabica la donna vive (o sopravvive) in condizioni sociali, psicologiche, culturali e umane completamente inaccettabili. L’Egitto è al primo posto in questa speciale classifica "al ribasso": in questo Paese, apparentemente vicino al mondo Occidentale, subito dopo la fine del regime Mubarak si è registrato un aumento di violenze sessuali, mutilazioni genitali e, più in generale, un complessivo rigurgito di fondamentalismo islamico, il quale, come sappiamo, osteggia qualunque tipo di emancipazione femminile.
A seguire, al secondo posto, troviamo l’Iraq, oggi ancor più pericoloso di quanto non lo fosse durante il regime di Saddam Hussein. Poi ci sono l’Arabia Saudita (dove alle donne è addirittura fatto divieto di guidare l’auto), la Siria, lo Yemen.
Il paese a maggioranza islamica in cui, invece, alle donne è riservato il trattamento migliore è rappresentato dal piccolo paradiso delle Isole Comore, un tempo francesi, oggi africane e di fede musulmana. In questo splendido luogo, immerso nell’Oceano Indiano, le donne possono divorziare e partecipare attivamente alla vita politica. A seguire, altri paesi islamici ricchi e stabili, come Kuwait, Oman, Qatar.
Fonti: sussidiario.net – corriere.it
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lunedì 4 novembre 2013
Zoe: una maratoneta sempre in pista...!
Dott.ssa Giorgia Aloisio
Zoe Koplowitz, anche quest’anno, ha corso la maratona di New York, sua città natale. Si tratta di un'abitudine, ormai: questa è la sua ventiquattresima volta. Nel 2000 ha fissato il record femminile mondiale della maratona più lenta del mondo, durata 36 ore e 9 minuti: dovete sapere che Zoe è una maratoneta speciale perché da più di trent’anni è affetta da sclerosi multipla, patologia autoimmune cronica che comporta la progressiva perdita della mielina. La mielina è una sostanza che trasporta velocemente il segnale elettrico tra le cellule nervose del cervello e del midollo spinale. In questa condizione, il sistema autoimmune 'corrode' la mielina che si assottiglia sempre più col passare del tempo: questo riduce la velocità con la quale viaggia il segnale nervoso.
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Maratona di New York |
Zoe Koplowitz, anche quest’anno, ha corso la maratona di New York, sua città natale. Si tratta di un'abitudine, ormai: questa è la sua ventiquattresima volta. Nel 2000 ha fissato il record femminile mondiale della maratona più lenta del mondo, durata 36 ore e 9 minuti: dovete sapere che Zoe è una maratoneta speciale perché da più di trent’anni è affetta da sclerosi multipla, patologia autoimmune cronica che comporta la progressiva perdita della mielina. La mielina è una sostanza che trasporta velocemente il segnale elettrico tra le cellule nervose del cervello e del midollo spinale. In questa condizione, il sistema autoimmune 'corrode' la mielina che si assottiglia sempre più col passare del tempo: questo riduce la velocità con la quale viaggia il segnale nervoso.
Classe ‘48, Zoe è autrice di The Winning Spirit—Life Lessons Learned In Last Place; durante le maratone, viene solitamente ‘scortata’ da amici, sostenitori, parenti, fan e da un piccolo gruppo di volontari che la segue nel tragitto senza mai perderla d'occhio.
Nel suo blog, la maratoneta elenca alcuni preziosi strumenti psicologici a suo giudizio indispensabili per compiere queste avventure sportive: il primo di questi strumenti è mantenere vivo dentro di sé ‘un grande sogno da realizzare’.
La straordinaria forza di volontà insieme alla grandiosa resistenza fisica sono di esempio per tutte le persone, con o senza disabilità: complimenti Zoe!
Zoe alla fine di una maratona. |
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giovedì 31 ottobre 2013
Mens sana in Corpore sano: sport e intelligenza
Un team di
ricercatori americani ha finalmente reso noto il perché praticare sport rende
le persone intelligenti: tutto merito dell’irisina.
Dallo studio americano diretto da Bruce Spiegelman del Dana-Faber Cancer Institute e Harvard Medical School di Boston, recentemente pubblicato sulla rivista Cell Metabolism, emerge che l’esercizio fisico stimola
la sintesi dell’irisina, una molecola neuroprotettiva che potenzia le funzioni
cognitive, favorendo l’apprendimento e la memoria. Sembrerebbe inoltre che la
maggiore concentrazione di irisina a sua volta stimolerebbe l'aumento nel cervello di un fattore di fondamentale importanza per il potenziamento della memoria e dell'apprendimento: il fattore neutrofico BDNF.
Questo studio apporta dunque un ulteriore valore aggiunto all’attività
sportiva.
Lo sport, oltre
tutti i benefici a livello fisico, risulta essere un’ottima occasione per
approfondire e migliorare la conoscenza di sé così da favorire anche notevoli
vantaggi psichici ed educativi.
Ha un ruolo
fondamentale e strategico rispetto alla crescita dei ragazzi e favorisce
l’acquisizione di caratteristiche psicologiche e comportamentali che sono di
fondamentale aiuto alla costruzione di una personalità sana.
I vantaggi del
praticare sport sono davvero tanti. In primis favorisce la presa di contatto
con se stessi, con la propria forza e la propria determinazione, oltre che con
i propri limiti e poi insegna a riconoscere e a gestire le proprie emozioni,
sia positive che negative.
Essendo inoltre un’attività
che richiede grande impegno, responsabilità e il rispetto di regole ben
precise, favorisce l’interiorizzazione di un sistema di norme e valori che
abituano la persona ai rapporti con il mondo circostante.
Anche se alcuni sport sono individuali si
svolgono necessariamente in un contesto sociale (palestra, campetti, piscina) e
questo stimola le relazioni interpersonali, sia con i pari che con gli adulti
diversi dai genitori e dagli insegnanti. A ciò consegue lo sviluppo di
competenze sociali e la capacità di lavorare in gruppo che sono di fondamentale
utilità nella vita di ognuno di noi. Inoltre lo sport aiuta a pianificare e ad organizzare
il tempo (concetto piuttosto aleatorio per i giovanissimi), aiuta a lavorare
per obiettivi e stimola la capacità di problem solving.
Insomma, il suggerimento che Giovenale fa
nella sua satira è assolutamente funzionale all’essere della persona.
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mercoledì 23 ottobre 2013
Slot machine? No grazie!
Cosa significa Slot-mob? Si tratta di un gruppo di persone costituito da docenti universitari romani di Economia, associazioni e movimenti studenteschi che premiano i locali senza slot-machine. Lo scopo di questo movimento è sensibilizzare le persone al pervasivo e diffuso problema della dipendenza da gioco (“ludopatia”), ormai una vera e propria emergenza sociale: questo genere di attività è spesso gestito dalla criminalità organizzata, con il consenso indiretto dello Stato che se da un lato è interessato a concedere autorizzazioni per giovarsi delle imposte che ne derivano, dall’altro deve in seguito investire veri e propri capitali per curare i danni che ne derivano alle persone (spesso studenti, disoccupati, anziani).
Gli Slot-mob combattono questa guerra con dolcezza: il loro modo per convincere i proprietari dei bar a non accettare di avere le Slot machine nel loro esercizio commerciale e compensarli dei mancati introiti consiste nell’organizzare grandi colazioni al bar… il 28 settembre 2013, a Milano, si sono riunite e hanno fatto colazione in un caffè di viale Jenner circa 300 persone!
Gli Slot-mob sono partiti da Biella il 27 settembre ’13 per raggiungere Milano, Teramo, Cagliari, Palermo, Catania, Trento, Reggio Emilia, Cremona, Roma e molte altre città.
Il nostro blog sostiene senza indugi questa giusta iniziativa!
Per maggiori informazioni: http://www.nexteconomia.org/slots-mob
Per una descrizione della ludopatia e dei suoi sintomi: sito del Ministero della Salute
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martedì 15 ottobre 2013
I cani provano emozioni? Certamente!
Dott.ssa Giorgia Aloisio
I cani provano emozioni che somigliano a quelle dei bambini.
Ne è convinto Gregory Berns, neuroscienziato della Emory University (Georgia, USA);
questo dato è anche confermato dalle risonanze magnetiche alle quali sono stati
sottoposte decine di cani negli ultimi due anni. Questa ricerca è stata
pubblicata nell’ottobre ’13 sul New York Times con l’evocativo titolo Anche i cani sono persone. Questi
esperimenti hanno rivelato l’attivazione del nucleo caudato, minuscola area immersa nella
profondità del cervello che si mette in moto quando le persone provano emozioni.
E da oggi, sappiamo che questo vale anche per i nostri cari amici cagnolini.
Diciamo pure addio alle teorie di Ivan Pavlov, notissimo fisiologo
russo che scoprì il riflesso condizionato e che spiegava le reazioni (emotive)
dei cani come nient’altro se non banali risposte automatiche ad uno stimolo
nervoso.
Sull’efficacia emozionale e sulla straordinaria ricchezza
che il rapporto con gli animali può produrre, non avevamo certo bisogno di
conferme scientifiche: chi possiede animali domestici conosce in prima persona
quel magico, immediato e segreto legame emotivo che intreccia le vite umane con
quelle animali! Chi vorrebbe averne uno e non lo ha (ancora) non avrà certo
dimenticato le intense pagine dell’Odissea, quando Omero descrive il fido Argo,
dopo vent’anni di lontananza dal suo padrone, che riconosce Ulisse travestito
da mendicante e muore a seguito della irresistibile scossa emotiva; chi ha visto
il commovente film ‘Hachiko’ ricorderà il tenace e appassionato attaccamento di
Hachi al suo padrone scomparso.
Da sempre leali accompagnatori di persone non vedenti, i
cani, oggi, ci sembrano più umani che in passato e con il pretesto della ricerca
scientifica possiamo confortarci: ecco come mai il legame tra questi affettuosi
animali e i loro padroni è così intenso e da sempre confermato in ogni luogo
del globo. Cosa dire, poi, della pet-therapy, la terapia nella quale sono gli
animali a ‘curare’ gli esseri umani? Delfini, cani, gatti, cavalli, conigli,
sono e sono stati impiegati per affrontare alcuni tra i più diffusi disagi,
soprattutto nella popolazione infantile, quali autismo, depressione, deficit
mentale, isolamento sociale, ma anche nel caso di soggetti detenuti o da lungo
tempo ospedalizzati. La pet-therapy è consigliata sia da medici che da
psicologi, e funziona.
Il rapporto che unisce l’uomo all'animale, la comunicazione
verbale e non verbale che si stabiliscono tra questi due poli, sono gli
ingredienti che ci spingono a condividere la nostra vita con questi intuitivi,
sensibili, adorabili amici a quattro zampe.
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mercoledì 2 ottobre 2013
Dall’omosessualità all’omofobia
In queste ultime settimane mi
sono soffermata a riflettere, in più di un’occasione, sul concetto di omofobia.
Il tutto ha avuto inizio con un confronto tra amici in merito al nuovo Disegno
di Legge in materia, approvato alla Camera e ora al Senato. Hanno fatto poi
seguito una giornata studio organizzata dall’Ordine degli Psicologi del Lazio e
la segnalazione, da parte di un’amica, della mostra “Masculin/Masculin”
al museo d'Orsay dal 24 settembre al 2 gennaio.
Nonostante sia ormai riconosciuto
a livello mondiale che l’orientamento sessuale non è una scelta e che l’omosessualità è
una variante normale della sessualità, l’avversione per i gay e le
lesbiche persiste.
…Ma l’omofobia cos’è?
L’omofobia (dal greco
όμός = stesso e φόβος = timore, paura) denota “disagio, svalutazione e
avversione, su base psicologico-individuale e/o ideologico-collettiva, nei
confronti delle persone omosessuali e dell’omosessualità stessa.” Il pensiero
omofobico sembra essere dunque radicato nel genere umano e difficile da
contrastare, sia su un piano personale che sociale/collettivo. Si riflette
nelle istituzioni e nelle strutture portanti della nostra società: nella
famiglia, nella scuola, nell'ambiente lavorativo, nella vita religiosa, nello
sport e nei mass media.
Per dirlo alla Jung sembra essere
consolidato nell’inconscio collettivo.
I sentimenti negativi, l’intolleranza
e la rabbia nei confronti di gay e lesbiche sono purtroppo all’ordine del
giorno: a volte si manifestano attraverso l’uso di un linguaggio e di slang
offensivi, altre volte si traducono in atteggiamenti e comportamenti omofobici carichi
di aggressività che caratterizzano numerosi episodi di cronaca.
Se questo panorama è già di per
sé critico, diventa ancor più inquietante se si considera che l'insulto, la
violenza psicologia e la discriminazione verso gli omosessuali vengono
tacitamente approvati e ritenuti normali anche tra gli stessi adolescenti che
in molte occasioni ritroviamo come autori di numerosi casi di bullismo
omofobico.
A questo delicato scenario si aggiunge
l’omofobia
interiorizzata, una forma subdola di omofobia che consiste
nell’interiorizzazione, più o meno inconsapevole, del pregiudizio che porta a
vivere in modo conflittuale la propria omosessualità, fino a volerla negare o
contrastare.
Possiamo ritenere che l'omofobia
diventa omofobia interiorizzata attraverso il pregiudizio, la disinformazione,
l'isolamento e la condanna sociale.
L’introiezione di un pensiero
omofobico così strutturato comporta diverse conseguenze sulla psiche della
persona omosessuale quali una scarsa accettazione e stima di sé; sentimenti
d’incertezza, inferiorità e vergogna; la credenza che l'omosessualità sia
sbagliata, sia qualcosa da negare e da nascondere; la non accettazione della
propria omosessualità perché causa di un senso di ansia, colpa, vergogna,
angoscia e tensione interiore; l’incapacità di comunicare agli altri il proprio
orientamento (coming out); la
convinzione di essere rifiutati a causa della propria omosessualità; il
convincimento di essere inadeguati e indegni di essere amati e
l’identificazione con tutti gli stereotipi denigratori derivanti dai pensieri
omofobici.
In questo senso il proprio
pregiudizio finisce per impedire la formazione di un'identità omosessuale
positiva.
È semplice dedurre come l’esperienza
di rifiuto e di oppressione possano determinare affaticamento emotivo, vissuti
depressivi e di rabbia nella cultura gay, come diretta conseguenza delle
manifestazioni del dovere essere invisibile
ma è inaccettabile che ad oggi un omosessuale debba subire anche l’influenza
omofobica e castrante dell’inconscio collettivo e sentirsi schiacciata da essa.
Dunque bisogna intervenire con campagne di sensibilizzazione, soprattutto tra i
giovanissimi, e prendere i dovuti provvedimenti per cercare di destrutturare il
pensiero omofobico sia personale che collettivo.
Dott.ssa Alessandra Paladino
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Roma, Italia
mercoledì 25 settembre 2013
Alunni in fuga: una riflessione sulla disabilità.
Avendo da più di dieci anni esperienza con alunni disabili,
rimango costantemente sintonizzata sugli avvenimenti che provengono da questo
tipo di realtà. Mi riferisco, nello specifico, a due notizie che mi hanno
colpita: la prima, relativa al cartello affisso in una scuola privata ischitana
che recitava ‘La scuola è
chiusa per tutti, perché c'è la giornata dei disabili. Sono molto malati quindi
i bambini si impressionano’,
la seconda relativa ad alcuni genitori che hanno deciso di ritirare 6 bambini
da una scuola elementare napoletana perché in classe c’era un alunno disabile (probabilmente
autistico, ma le notizie non entrano nel dettaglio).
Chi di noi non ha mai avuto un
compagno di classe o di scuola disabile? Io, per fare un esempio, sono stata in
banco con un ragazzo con sindrome di Down, alle elementari.
A volte la disabilità
include comportamenti fastidiosi per chi la vive da vicino: aggressività,
rumorosità, odori/perdite sgradevoli e quant’altro. Altre volte, la
‘anormalità’ è silenziosa, come nel caso delle disabilità di tipo cognitivo
(ritardo mentale), sensoriali (sordità, cecità, sordocecità), motorie
(tetraparesi, sclerosi, …). Il mondo è bello perché vario: questo vale anche
per la disabilità. Non è possibile vivere una vita senza aver mai avuto vicino
un disabile: ormai, da alcuni anni, anche al lavoro ci troviamo a contatto con
persone disabili, dal momento che una percentuale dei posti di lavoro è loro
riservata.
A volte preferiamo dimenticare le
‘disabilità’ che ognuno di noi ha o ha avuto nella propria famiglia: nonni
sordi o con una demenza, zii depressi, parenti affetti da franche patologie
somatiche.
Ma allora, perché privare un figlio
di questo tipo di esperienza, dal momento che, prima o poi, ci si dovrà
comunque incontrare? Vogliamo far credere ai bambini che la disabilità,
l’imperfezione, la fragilità umane non fanno parte di questo mondo? Procedendo
di questo passo rischiamo di creare noi una disabilità
ai nostri figli, che poi altro non è se non la meravigliosa ‘campana di vetro’
che ci illude di proteggerli: li priviamo di esperienze basilari, come il
contatto con il disagio e la sofferenza empatica che fanno parte dell’avventura
umana, senza sconti per nessuno.
Senza dubbio non è semplice rispondere
alle domande di un bambino ‘normale’ che entra per la prima volta in contatto
con un compagno disabile; i genitori sono costretti a rispondere alle sue
domande, a dare un senso a ciò che spesso risulta del tutto immotivato, ad
accogliere il suo turbamento, il senso di impotenza e lo sconvolgimento che è
normale provare in situazioni di questo genere. Tutto questo fa parte della
vita: genitori e maestri sono deputati ad introdurre i più giovani nel mondo,
con le dovute cautele, certo, ma anche con le necessarie premesse e i dovuti
incontri.
Per evitare che questi incontri
si tramutino in ‘scontri’ sarebbe bene che il contatto e l’integrazione
abili/disabili avvenga in età precoce, in modalità condivisa anche con gli
altri coetanei (esempio: facendo turnare i vari compagni di banco dell’alunno
disabile) e in un clima di inclusione. E sono proprio gli adulti (docenti e
genitori) che dovrebbero facilitare questo processo di inserimento e
accoglienza.
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Ubicazione:
Roma, Italia
mercoledì 18 settembre 2013
Chiedere aiuto: una scelta preziosa
La
richiesta di una consultazione psicologica è un momento
fondamentale, che giocherà un ruolo di primo piano sulle scelte
future del soggetto e sull’eventuale cammino psicologico.
Quando
una persona decide di consultare uno psicologo, ciò avviene perché
un vecchio equilibrio che prima funzionava, ora non regge più: il
soggetto non può più appoggiarsi a nessun tipo di appiglio e prova
la sensazione che non ci siano più vie d’uscita. La psicoterapia,
dunque, può assumere anche l’aspetto dell’ultima spiaggia, l’ultimo doloroso ed incerto tentativo di dare (forse) pace alla
propria inquietudine. A volte questo percorso ci viene suggerito da
un amico, da un familiare, altre volte dal medico curante: altre
ancora siamo noi stessi a sentirne per primi l’esigenza. La ricerca può
assumere allora diverse sfumature: ci sentiamo imbarazzati per la
nostra “insolita” richiesta, possiamo provare senso di colpa
perché forse quei problemi “non esistono, ed in ogni caso avremmo
dovuto risolverli da soli”, possiamo sentirci confusi sulla stessa
richiesta che esplicitiamo, né sappiamo con precisione cosa ci
aspetterà.
Quando
chiedo aiuto a una persona ciò significa che mi trovo in difficoltà
e che, date le mie condizioni, non ho modo di “aiutarmi da solo”:
significa riconoscere la propria impotenza, o se vogliamo la propria
non – onnipotenza di fronte alle difficoltà.
Se
ci pensiamo bene, questo ci succede quasi quotidianamente, e neanche
ce ne accorgiamo: quando ci si rompe un elettrodomestico, quando non
funziona più un utensile, quando si consuma un oggetto d’uso
comune, noi ricorriamo agli altri ed alle loro competenze,
conoscenze, abilità. Così come quando ci troviamo di fronte ad un
disturbo fisico, siamo spinti a consultare un medico specialista. Ma
la richiesta di consultazione terapeutica ci crea non pochi problemi.
Perché chiediamo aiuto per una caldaia in panne e siamo invece
ritrosi a chiedere una consulenza psicologica?
Senza
dubbio questa richiesta ha il proprio prezzo: ma è un prezzo che
presto o tardi potrà diventare un valore, un bene, una sicurezza,
una salvezza. Soprattutto un gesto positivo che facciamo nei nostri
confronti. Un gesto che ci fa capire quanto, in fondo, già ci stiamo
aiutando, perché abbiamo compreso di essere in difficoltà.
Un
percorso terapeutico può avere una durata più o meno lunga: può
durare alcuni mesi o numerosi anni. Ma questo tempo, qualunque sia la sua durata, è per noi
prezioso perché ci facilita la conoscenza di noi stessi, dei nostri
limiti ma anche delle nostre risorse, delle possibilità di cui
disponiamo e che ancora non abbiamo avuto modo di conoscere.
Quando
conosciamo noi stessi, il mondo ci fa meno paura, ed anche le scelte
più complesse, prima inconcepibili, ci sembrano pensabili, quasi
possibili, perché ne siamo responsabili ed abbiamo la forza di
sostenere il peso di queste responsabilità.
Non
sempre è sufficiente intraprendere un cammino psicologico per
emergere dal buio che ci opprime: è anche possibile che sia
necessario un consulto psichiatrico e, di conseguenza, una terapia
farmacologica da affiancare a quella psicologica. Ma non bisogna
dimenticare che in entrambi i casi stiamo “curando” la nostra
psiche ed il nostro corpo (indissolubilmente legati), quindi noi
stessi.
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Ubicazione:
Roma, Italia
martedì 17 settembre 2013
Come parlare di Psicoterapia?
Parlare di psicoterapia non è cosa semplice!
Le tecniche terapeutiche sono
tante e per i non addetti ai lavori non è facile comprendere le sfumature e le
peculiarità di ogni singolo approccio.
Chi chiede una consultazione psicologica
ha il diritto di essere adeguatamente informato per poter scegliere l’orientamento
e il percorso più indicato allo specifico stato psichico e alla propria
persona.
Il terapeuta è tenuto a fornire
una chiara definizione della psicoterapia e ad essere più esaustivo possibile
così da aiutare il paziente nella scelta del proprio percorso terapeutico.
In queste circostanze il professionista
realizza che è superfluo ricorrere alle terminologie tecniche apprese durante
gli anni di formazione o durante le supervisioni con i grandi guru della psicologia.
Il terapeuta deve essere, deve sapere e deve saper fare, cioè deve riuscire ad accogliere empaticamente la persona che ha davanti senza ledere in
alcun modo la sua sensibilità e accompagnarlo verso un nuovo cammino, che sia
per lui risolutivo.
Alla luce di queste
considerazioni mi sono interrogata più volte su come ridefinire un concetto
così importante e allo stesso tempo così complesso per poi poterlo rimandare
serenamente ai miei pazienti.
Dopo alcune riflessioni, proprio
durante la pratica clinica, in colloquio con un mio paziente, ho ritenuto di
poter affermare che “tramite la
psicoterapia il terapeuta aiuta il paziente a riscrivere le note per comporre
una nuova melodia e, su questa nuova melodia, reinventare i passi, gli schemi e
la scena per poi giungere a produrre una nuova coreografia. In questo modo è
possibile sostenere il paziente nel danzare la nuova vita. (Paladino, 2013).
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Edgar Degas, dettaglio “l’étoile”
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Dott.ssa Alessandra Paladino
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Roma, Italia
giovedì 12 settembre 2013
L’Arteterpia come libera espressione del Sé
“Attraverso l'arteterapia si ha la possibilità di attivare risorse che tutti possediamo: la capacità di elaborare il proprio vissuto, dandogli una forma, e di trasmetterlo creativamente agli altri. Si tratta di un processo educativo, laddove “educare” sta per educere, “portare fuori: far emergere la consapevolezza ed una maggior conoscenza di sé mediante la pratica espressiva, l'osservazione ed il confronto.” (dagli Atti del Convegno Nazionale sulle Arti Terapie nella scuola - Carpi, 7 e 8 Settembre 2001).
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Lavoro di Federica, 4 anni |
Attraverso l'espressione artistica è possibile
incrementare la consapevolezza di sé, fronteggiare situazioni di
difficoltà e stress, esperienze traumatiche, migliorare le abilità cognitive e
godere del piacere
che la creatività artistica, affermando la vita, porta con sé. L’arteterapia,
infatti, è un intervento di aiuto e di sostegno a carattere non-verbale che utilizza
materiali artistici e si fonda sul presupposto che il processo creativo
messo in atto nel fare arte produce benessere e salute, dunque migliora
la qualità della vita.
Quando si parla di arteterapia si intende
quell'insieme di tecniche e metodologie che consentono, a chi ne usufruisce, l’espressione
del sé, il sostegno dell’Io e lo sviluppo dell’autostima. L’attività artistica, come
mezzo terapeutico, consente il
recupero e la crescita della persona nella sua sfera emotiva, affettiva e
relazionale soprattutto grazie alla possibilità di percepirsi come
individuo capace di fare e di esprimere. Questo fare è fondamentale! Grande attenzione viene posta al processo artistico,
inteso come processo creativo, e non
è necessario dare un’interpretazione al prodotto poiché è l'atto di produrre
un'impronta creativa a rendere terapeutico il percorso. Il prodotto può essere
poi interpretato ma non è fondamentale per il processo di crescita e di
integrazione dell’Io. In arteterapia, quindi durante il processo creativo, è
indispensabile riuscire a legare e coniugare gestualità, espressività, immaginazione ed emozioni. In
questa ottica, ogni espressione dell'anima e della propria umanità,
fosse anche solo un semplice segno o un insieme caotico di linee e colori, è la
manifestazione
autentica di un sentire profondo, ed è attraverso questo
processo di simbolizzazione che le emozioni e i processi cognitivi trovano la
loro libera espressione.
L’arte aiuta ad esprimere quello che con le parole non si riesce a comunicare.
Dott.ssa Alessandra Paladino
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L’angoscia dipinta da Edvard Munch: l’ Urlo.
Camminavo lungo la strada con due amici quando
il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue, mi fermai,
mi appoggiai stanco morto a un recinto, sul fiordo nerazzurro e sulla città
c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io
tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la
natura.
(Tratto dal diario di E. Munch)
… è così che Edvard Munch partorisce il suo
più celebre dipinto: L'urlo, detto anche Il grido,
il cui titolo originale, in norvegese, è Skrik.
Questo quadro è
uno dei più famosi dell’espressionismo nordico. Tale capolavoro è stato realizzato
nel 1893 su cartone con olio, tempera e pastello ed è parte di una serie di
opere denominate "Il Fregio della Vita", in cui Munch ha esplorato i
temi di vita, amore, paura, morte e malinconia. Come per altre opere, Munch, ne
ha dipinte più versioni tra cui una esposta alla Galleria Nazionale di Oslo ed
una al Museo Munch della stessa città.
L’immagine del Grido è diventata un
luogo dell’immaginario collettivo: dilaga in infiniti gadget pubblicitari, dal
cinema alle magliette, dalle copertine dei libri agli striscioni contro la
guerra. È diventata una sorta di figura apotropaica che accompagna l’uomo nella
sua quotidianità con l’intento di esorcizzare le paure e i fantasmi più reconditi.
In quest’opera la pittura, per la prima volta,
trova i mezzi per esprimere nel suo emergere l’immagine della catastrofe
interiore, per descrivere il collasso del mondo interno e della realtà in tutto
il suo impeto emotivo. Munch riesce a far vedere il grido, lo costruisce
nelle sue linee di forza, nel potere di deformazione degli oggetti e nella
fissità dello sguardo che si perde in quella che è l'esperienza del panico.
Munch riesce anche a trasmettere il suono dell’urlo che
si percepisce in modo violento e irresistibile. In quest’opera non è solo
l'uomo ad urlare, ma tutta la natura si anima di un grido vuoto ma allo stesso
tempo tangibile. La figura umana, le forme, gli oggetti e i colori tutti
gridano esprimendo la stessa emozione. Sappiamo che i colori esercitano sui
processi associativi degli impulsi simili a quelli degli affetti nella vita
quotidiana e qui il rosso, con tutte le sue sfumature, predomina. Sembra che
nel rosso del tramonto sia stato proiettato violentemente tutto il dolore che
la mente non ha saputo contenere lasciando supporre il prevalere di una
risposta colore puro, esattamente uno shock al rosso, per parlare in termini Rorschachiani.
Un indice, questo, di profondi disturbi nella sfera affettiva, aggressiva e
sessuale, che tradisce la possibilità di violente tempeste emotive, aspetti
certo non estranei alla vita di Munch. Considerando che quest’opera è
assolutamente autobiografica, l’interpretazione psicoanalitica potrebbe essere che forse quella sera (pochi
mesi dopo la morte del padre e con il dolore ancora bruciante) Munch, ispirato
dalla natura, non vide solo un tramonto rosso sangue, ma il fantasma stesso
della madre morta, che insieme a quello della sorella, teneva nascosti in una
tomba psichica, magicamente inghiottiti, per non vederne la perdita troppo
dolorosa. Per questo l'uomo che grida ha gli occhi spalancati, gli occhi di
colui che hanno visto ciò che non avrebbero voluto vedere mai; la visione di
quei fantasmi, ingoiati, espulsi dentro di sé, nascosti in una cripta.
Nel dipingere quest’opera, Munch, sembra
quindi smentire clamorosamente il giudizio di Schopenhauer, che riteneva
impossibile la riproduzione del grido nelle arti figurative. Munch in alcune pagine
del suo diario scrive: “…Ho letto i testi dei filosofi della Scandinavia e ho
sentito parlare delle teorie sulla psiche umana sviluppate dal dottor Freud, a
Vienna. Io avverto un profondo senso di malessere, che non saprei descrivere a
parole, ma che invece so benissimo dipingere”. Egli infatti scrive: “I miei
quadri sono i miei diari” tanto che il Fregio della vita finisce per sostituire
gli appunti autobiografici.
Avvicinarsi al Grido è una esperienza
affascinante e complessa allo stesso tempo; l’accostarsi ad esso può
coinvolgere, esaltare o turbare. In esso è condensato tutto il rapporto
angoscioso che l’artista avverte nei confronti della vita e attraverso la sua
opera riesce a dar voce a un urlo che
in molti provano durante il corso della propria vita infatti, indubbia è la sua
capacità di trasmettere sensazioni universali. Qui è ben rappresentata tutta
l’angoscia che si racchiude in uno spirito tormentato che vuole esplodere in un
grido liberatorio pur non essendoci alcun elemento che possa far supporre in
una conseguente liberazione consolatoria. L’urlo di questo quadro è una intensa
esplosione di energia psichica, un insieme di follia, malattia e morte infatti
Munch scrive: “…soltanto un pazzo avrebbe potuto dipingerlo”.
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Edvard Munch |
Edvard Munch è il pittore dell'angoscia. Tale stato
psichico caratterizza un po’ tutta la sua esistenza a causa di una vita
tormentata da perdite e dolore: la madre muore mentre è ancora bambino e,
adolescente, assiste alla morte della giovane sorella, logorata dalla tubercolosi.
Questi episodi segnano la sua vita e condizionano la sua sensibilità fino ad influenzare
i suoi quadri. Il Grido ne è l’esempio eclatante: qui rappresenta un’esperienza
reale di una sera d'estate del 1893, pochi mesi dopo la morte del padre. L'arte
di Munch nasce quindi come autoritratto dell'inferno interiore, come immagine
di un interno lacerato, frammentato, da perdite non ricomponibili nel lutto e
da traumi troppo difficili da elaborare. Munch stesso scrive: “La mia pittura è
in realtà un esame di coscienza e un tentativo di comprendere i miei rapporti
con l’esistenza. È dunque una forma di egoismo, ma spero sempre di riuscire,
grazie ad essa, ad aiutare gli altri a vedere chiaro”. Si può ritenere dunque
che l’autore intenda l’opera come interpretazione e la pittura come autoanalisi
e cura dell’anima. Essa, in fondo risponde all’unico vero bisogno dell’artista:
quello di ricomporre il proprio mondo interno, di ricreare i propri oggetti
d’amore lacerati, distrutti e perduti. Il noto legame tra autobiografia e arte,
in Munch, è allora qualcosa di più di una ricostruzione per immagini, la sua opera
non è semplice rappresentazione di un evento, uno stato d’animo o un conflitto,
piuttosto è disvelamento
e messa in forma
della complessa trama di forze che agitano la vita. Si potrebbe anche dire che l’opera di Munch è la trasformazione
in pittura delle passioni elementari e quindi interpretazione della vicenda
umana.
Lo stile di Munch è legato
all’esigenza di esprimere contenuti emotivi, la sua innovazione stilistica è
proprio la necessità espressiva interiore, e la sua tensione pitturale concreta
organizza e controlla la vicenda emotiva nella costante ricerca di nuovi
rapporti con lo spazio e l’immagine. In questa corrispondenza tra interno ed
esterno, tra fantasma ed opera, sta forse il segreto dello stile di Munch,
fatto di scarti improvvisi, recuperi, incertezze. Esso non è mai completamente
aderente agli stilemi dell’epoca, né mai completamente indifferente. Il suo
stile resta insieme naturalista, impressionista, simbolista, espressionista e
niente di tutto ciò. Come ha dichiarato Schmidt-Rottluff: “Munch resta un fenomeno
unico”.
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venerdì 6 settembre 2013
In occasione di una triste ricorrenza, per ripensare alle Torri Gemelle … insieme a Philippe Petit.
Una sala d'attesa. Un
giornale sfogliato in attesa della visita dentistica. E un ragazzino
che sbirciando tra quelle pagine progetta un folle volo: passeggiare
su un cavo tra le torri. Quale torri? Quelle che secondo l'articolo
letto sarebbero state costruite di lì a qualche anno a New York,
nella Grande Mela; le Torri Gemelle del World Trade Center.
Dopo aver “passeggiato”
tra i due campanili di Notre Dame e in cima all'Harbour Bridge di
Sidney qualche anno prima, nel 1974 Philippe Petit, scapestrato
giocoliere, mimo, funambolo, amante del rischio e del pericolo
progettò la passeggiata tra le Torri Gemelle: insieme ad una
combriccola di pazzoidi come lui, studiò per lunghi mesi le
distanze, penetrò con la truppa per studiare i luoghi, conoscere le
persone, falsificare badge e permessi d'accesso per ingegneri mai
esistiti. All'alba del 7 agosto di quell'anno, a più di 400 metri
d'altezza, dopo aver fatto scagliare a un complice una freccia
collegata ad una fune di ferro, Philippe realizzò la sua impresa:
passeggiare tra le due torri. Attraversò quello spazio aereo per
circa 8 volte, trascorse quasi un'ora su quel cavo, tra le nuvole,
camminò, si distese e si rialzò: tutto sotto gli occhi increduli e
sbigottiti dei passanti e dei telespettatori che seguivano la
eccezionale, straordinaria diretta televisiva.
“Una personalità
borderline”, avvezza a questo genere di pazzie, una testa calda...
Numerosi i commenti, tesi alla ricerca di una spiegazione per quella
incredibile impresa. Un'esperienza estrema, artistica, istrionica, ma
comunque indimenticabile, oltre che del tutto irripetibile, oggi,
alla luce dell'attentato che l'11 settembre 2001 distrusse i due
grattacieli, oltre a spezzare la vita di migliaia di persone.
Nel 2008 l'avventura di
Petit è diventata un docufilm che ha ricevuto numerosi premi e
riconoscimenti da parte dei più importanti concorsi cinematografici
del mondo: scene ricostruite e immagini di Philippe da giovane
(durante i suoi estenuanti allenamenti fisici) oltre a momenti della
passeggiata tra le Torri Gemelle ci fanno conoscere questo
stravagante, coraggioso e solitario uomo che oggi è parte della
storia, della cultura e dell'attualità del nostro tempo.
Un suo pensiero:
Il
filo non è ciò che si immagina. Non è l'universo della leggerezza,
dello spazio, del sorriso.
È
un mestiere
Sobrio,
rude, scoraggiante.
E
chi non vuole intraprendere una lotta accanita di sforzi inutili,
pericoli profondi, trappole, chi non è pronto a dare tutto per
sentirsi vivere, non ha bisogno di diventare funambolo.
Soprattutto
non lo potrebbe.
Il video,
doppiato in Italiano, è integralmente visibile su youtube:
http://www.youtube.com/watch?v=H2KYVU36WHE
Buona visione!
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