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venerdì 7 marzo 2014

Primo appuntamento con la professione psicologica.

Psicologo del traffico: come evitare di fare la fine di Michael Douglas in ‘Un giorno di ordinaria follia’.


Dott.ssa Giorgia Aloisio

Sicuramente molti lettori conosceranno il celebre film ‘Un giorno di ordinaria follia’, o ne avranno quanto meno sentito parlare: in questa pellicola del ’93, Bill Foster (impersonato dallo straordinario quanto credibile Michael Douglas) è un uomo vessato da una serie di drammatiche vicissitudini personali (perdita del lavoro, grave crisi coniugale, incomunicabilità con la figlia). Un giorno, che sembra avere luogo nel solito ‘ordinario tran tran’, Bill, appesantito dal caldo torrido e dal nervosismo accumulato, esplode come una bomba atomica: la goccia che fa traboccare il vaso è un momento di traffico autostradale davvero insostenibile (anche per gli spettatori!). In questa sgradevole occasione, il protagonista prova per l’ennesima volta un mix di rabbia e impotenza che lo conducono a trasformarsi da grigio, incravattato impiegato d’azienda, in un temibile aggressore munito di mazza da baseball e armi di sterminio, una specie di crudele giustiziere che comincia a somministrare odio, paura, orrore con la freddezza di un gangster navigato: e lo fa un po’ dove capita, dal misero negozietto coreano al quartiere latino. Ogni scusa diventa buona per tirare fuori le armi e minacciare l’altro: anche quando la cameriera gli fa presente che non è più ora di servire la colazione. Eccolo in una immagine davvero evocativa e, direi, spaventosa, del film.

Un giorno di ordinaria follia (nella foto: M. Douglas)

Se Bill avesse avuto modo di sfogare almeno in parte questo intenso stato di frustrazione, se qualcuno gli avesse chiesto come si sentisse, quel giorno o uno dei precedenti e magari gli avesse mostrato supporto, empatia, ascolto, forse tutta quella violenta follia non avrebbe avuto luogo (e che fine avrebbe fatto il film??). Ci sarebbe proprio voluto uno psicologo capace e competente per placare quell’ira funesta…

Questo spunto cinematografico ci fa riflettere sul fatto che, spesso, poche sollecitazioni possono bastare per raggiungere il livello di massima sopportazione e scatenare una reazione abnorme, anomala e decisamente ‘sopra le righe’: in questo caso, a far scoccare la scintilla finale è stato uno di quei cosiddetti ‘budelli’ costituiti da una interminabile fila di automobili ammassate e bloccate su un tratto stradale. Naturalmente, le occasioni per ‘oltrepassare il limite’ e dare in escandescenza possono essere le più varie, dalle più banali a quelle più inusuali. Ciò che un individuo può imparare a fare su se stesso è accorgersi del momento in cui avviene questa specie di passaggio, dallo stato di calma apparente alla rapida e violenta reazione: apprendere da alcuni segnali interiori che qualcosa sta accadendo nel nostro mondo psichico è già un passo avanti utile - a prevenire prima e acquietare poi - questi istinti a volte così distruttivi per noi e per gli altri.


Torniamo alla psicologia, il ‘faro’ che può far luce su molte delle dinamiche psichiche umane. Questa disciplina può essere d’aiuto anche per la strada: infatti, in questi ultimi anni si è iniziato a parlare anche in Italia di psicologi/psicologhe del traffico. Si tratta di una figura professionale già esistente nei paesi del Nord Europa (prima o poi dovremo abituarci a questo eterno squilibrio Europa del Nord/resto dell’Europa), deputata a minimizzare i rischi per la salute psicofisica collegati ai trasporti e ai mezzi di locomozione e a massimizzare la sicurezza stradale. 

La psicologia del traffico studia gli effetti delle sostanze sulla guida (quindi droghe, alcool, farmaci), di affaticamento, mancanza di sonno, patologie croniche, età dei conducenti (comportamento dei neopatentati e degli anziani), ma si occupa anche della percezione di rischio, compiti di guida, performance, fattori emotivi e cognitivi connessi alla guida e al soccorso in caso di vittime o testimoni di incidenti stradali. Anche le condotte trasgressive e le differenze individuali sono oggetto della psicologia del traffico, insieme alla progettazione congiunta con altre figure connesse all’ambito stradale, quali ingegneri urbanisti, medici, infermieri, operatori sociosanitari, avvocati, sociologi, pedagogisti, Forze dell’Ordine, epidemiologi. Questa disciplina si occupa, inoltre, di progettare la cartellonistica e la segnaletica adatte ai messaggi che questi intendono comunicare.

Le discipline che si connettono tra loro per raggiungere questo scopo, sono la psicologia clinica, la generale, cognitiva applicata, psicologia della salute, sociale, della comunicazione, ergonomica. 


mercoledì 25 settembre 2013

Alunni in fuga: una riflessione sulla disabilità.

Avendo da più di dieci anni esperienza con alunni disabili, rimango costantemente sintonizzata sugli avvenimenti che provengono da questo tipo di realtà. Mi riferisco, nello specifico, a due notizie che mi hanno colpita: la prima, relativa al cartello affisso in una scuola privata ischitana che recitava ‘La scuola è chiusa per tutti, perché c'è la giornata dei disabili. Sono molto malati quindi i bambini si impressionano’, la seconda relativa ad alcuni genitori che hanno deciso di ritirare 6 bambini da una scuola elementare napoletana perché in classe c’era un alunno disabile (probabilmente autistico, ma le notizie non entrano nel dettaglio).


Chi di noi non ha mai avuto un compagno di classe o di scuola disabile? Io, per fare un esempio, sono stata in banco con un ragazzo con sindrome di Down, alle elementari.
A volte la disabilità include comportamenti fastidiosi per chi la vive da vicino: aggressività, rumorosità, odori/perdite sgradevoli e quant’altro. Altre volte, la ‘anormalità’ è silenziosa, come nel caso delle disabilità di tipo cognitivo (ritardo mentale), sensoriali (sordità, cecità, sordocecità), motorie (tetraparesi, sclerosi, …). Il mondo è bello perché vario: questo vale anche per la disabilità. Non è possibile vivere una vita senza aver mai avuto vicino un disabile: ormai, da alcuni anni, anche al lavoro ci troviamo a contatto con persone disabili, dal momento che una percentuale dei posti di lavoro è loro riservata.


A volte preferiamo dimenticare le ‘disabilità’ che ognuno di noi ha o ha avuto nella propria famiglia: nonni sordi o con una demenza, zii depressi, parenti affetti da franche patologie somatiche.

Ma allora, perché privare un figlio di questo tipo di esperienza, dal momento che, prima o poi, ci si dovrà comunque incontrare? Vogliamo far credere ai bambini che la disabilità, l’imperfezione, la fragilità umane non fanno parte di questo mondo? Procedendo di questo passo rischiamo di creare noi una disabilità ai nostri figli, che poi altro non è se non la meravigliosa ‘campana di vetro’ che ci illude di proteggerli: li priviamo di esperienze basilari, come il contatto con il disagio e la sofferenza empatica che fanno parte dell’avventura umana, senza sconti per nessuno.
Senza dubbio non è semplice rispondere alle domande di un bambino ‘normale’ che entra per la prima volta in contatto con un compagno disabile; i genitori sono costretti a rispondere alle sue domande, a dare un senso a ciò che spesso risulta del tutto immotivato, ad accogliere il suo turbamento, il senso di impotenza e lo sconvolgimento che è normale provare in situazioni di questo genere. Tutto questo fa parte della vita: genitori e maestri sono deputati ad introdurre i più giovani nel mondo, con le dovute cautele, certo, ma anche con le necessarie premesse e i dovuti incontri.

Per evitare che questi incontri si tramutino in ‘scontri’ sarebbe bene che il contatto e l’integrazione abili/disabili avvenga in età precoce, in modalità condivisa anche con gli altri coetanei (esempio: facendo turnare i vari compagni di banco dell’alunno disabile) e in un clima di inclusione. E sono proprio gli adulti (docenti e genitori) che dovrebbero facilitare questo processo di inserimento e accoglienza.


mercoledì 18 settembre 2013

Chiedere aiuto: una scelta preziosa


La richiesta di una consultazione psicologica è un momento fondamentale, che giocherà un ruolo di primo piano sulle scelte future del soggetto e sull’eventuale cammino psicologico.


Quando una persona decide di consultare uno psicologo, ciò avviene perché un vecchio equilibrio che prima funzionava, ora non regge più: il soggetto non può più appoggiarsi a nessun tipo di appiglio e prova la sensazione che non ci siano più vie d’uscita. La psicoterapia, dunque, può assumere anche l’aspetto dell’ultima spiaggia, l’ultimo doloroso ed incerto tentativo di dare (forse) pace alla propria inquietudine. A volte questo percorso ci viene suggerito da un amico, da un familiare, altre volte dal medico curante: altre ancora siamo noi stessi a sentirne per primi l’esigenza. La ricerca può assumere allora diverse sfumature: ci sentiamo imbarazzati per la nostra “insolita” richiesta, possiamo provare senso di colpa perché forse quei problemi “non esistono, ed in ogni caso avremmo dovuto risolverli da soli”, possiamo sentirci confusi sulla stessa richiesta che esplicitiamo, né sappiamo con precisione cosa ci aspetterà.



Quando chiedo aiuto a una persona ciò significa che mi trovo in difficoltà e che, date le mie condizioni, non ho modo di “aiutarmi da solo”: significa riconoscere la propria impotenza, o se vogliamo la propria non – onnipotenza di fronte alle difficoltà.
Se ci pensiamo bene, questo ci succede quasi quotidianamente, e neanche ce ne accorgiamo: quando ci si rompe un elettrodomestico, quando non funziona più un utensile, quando si consuma un oggetto d’uso comune, noi ricorriamo agli altri ed alle loro competenze, conoscenze, abilità. Così come quando ci troviamo di fronte ad un disturbo fisico, siamo spinti a consultare un medico specialista. Ma la richiesta di consultazione terapeutica ci crea non pochi problemi. Perché chiediamo aiuto per una caldaia in panne e siamo invece ritrosi a chiedere una consulenza psicologica?



Senza dubbio questa richiesta ha il proprio prezzo: ma è un prezzo che presto o tardi potrà diventare un valore, un bene, una sicurezza, una salvezza. Soprattutto un gesto positivo che facciamo nei nostri confronti. Un gesto che ci fa capire quanto, in fondo, già ci stiamo aiutando, perché abbiamo compreso di essere in difficoltà.
Un percorso terapeutico può avere una durata più o meno lunga: può durare alcuni mesi o numerosi anni. Ma questo tempo, qualunque sia la sua durata, è per noi prezioso perché ci facilita la conoscenza di noi stessi, dei nostri limiti ma anche delle nostre risorse, delle possibilità di cui disponiamo e che ancora non abbiamo avuto modo di conoscere.



Quando conosciamo noi stessi, il mondo ci fa meno paura, ed anche le scelte più complesse, prima inconcepibili, ci sembrano pensabili, quasi possibili, perché ne siamo responsabili ed abbiamo la forza di sostenere il peso di queste responsabilità.
Non sempre è sufficiente intraprendere un cammino psicologico per emergere dal buio che ci opprime: è anche possibile che sia necessario un consulto psichiatrico e, di conseguenza, una terapia farmacologica da affiancare a quella psicologica. Ma non bisogna dimenticare che in entrambi i casi stiamo “curando” la nostra psiche ed il nostro corpo (indissolubilmente legati), quindi noi stessi.