lunedì 24 marzo 2014

Non Solo Psicologia ... emigra!


Cari amici, blogger e lettori di Non Solo Psicologia, siamo liete di comunicarvi che il nostro blog si è spostato: da oggi in poi potrete seguirci su un nuovo dominio: 


Vi aspettiamo!!!

Alessandra Paladino, Silvia Ferretti, Giorgia Aloisio


mercoledì 19 marzo 2014

COM’E’ PROFONDO IL MARE

Dott.ssa Silvia Ferretti



Da poco più di due anni è scomparso Lucio Dalla, e credo sia capitato a tutti di ascoltare (forse qualcuno con un pizzico di malinconia) alcune delle sue canzoni che la  televisione o la radio in questo periodo hanno riproposto, e che ritengo facciano parte di quel gruppo di canzoni “eterne ed intramontabili”, che si continueranno ad ascoltare, le cui note sono sulle bocche di tutte le generazioni. 
Nel 1977 Lucio Dalla scrive uno dei testi più profondi che siano mai stati scritti,  direi uno dei testi “più psicoanalitici che esista”. Partendo dalla propria storia con un chiaro riferimento autobiografico del “babbo gran cacciatore di quaglie e di fagiani”, scrive la storia del mondo che ha avuto origine dal mare, e soprattutto la storia dell’umanità che sta piegando, distruggendo, uccidendo il mare. La canzone scorre e Dalla vi naviga, sollecitando e spronando il mondo all’amore e all’emancipazione, cantando quanto sia difficile vivere tra le prepotenze, nella povertà, tra le prevaricazioni; di fronte a tutto ciò, il mare sembra essere un profondo nascondiglio, un riparo, un luogo sicuro, dove forse si può pensare liberamente, dove si possono ritrovare speranza e coraggio, forse, si può azzardare, la profondità della propria personalità, della propria intimità.
Lucio Dalla scrive questa canzone ben 30 anni fa, eppure appare ancora tanto attuale. Il brano narra la storia del mondo (impresa piuttosto ardua!), un mondo costellato dalla violenza, una violenza rivolta soprattutto al pensiero, alle idee, dunque al mare. La metafora che utilizza Dalla, dal sapore psicologico ed ancor più precisamente psicoanalitico, appare assolutamente calzante e profonda.



Il mare, l’acqua,  in psicoanalisi occupano un posto fondamentale: Freud e Jung, ad esempio affidano una grande importanza all’ “elemento acqua”, essendo l’acqua materna il primo contatto con la vita. Secondo Jung, l’accostamento tra immagine materna ed acqua attribuisce a quest’ultima peculiarità quasi magiche, tipiche della madre: dare la vita, appunto, attraverso l’acqua. Freud spiega come l’acqua sia, nel nostro inconscio, essenzialmente un simbolo della vita. In una delle sue opere principali, “L’interpretazione dei sogni” (1899), Freud, analizzando i sogni dei suoi pazienti chiarisce come sognare di immergersi nell’acqua sia un simbolo di nascita.
 Anche senza scomodare il padre della psicanalisi, in generale sognare di immergersi nelle acque suggerisce il bisogno di lasciarsi andare alle emozioni ed una profonda necessità di cambiamento. Quel cambiamento che cantava e che auspicava Dalla, nonostante la canzone sia un mix di vari significati dato anche il periodo politico e sociale in cui la scriveva, un cambiamento sicuramente difficile perché il pensiero come l’oceano non lo puoi bloccare.

lunedì 17 marzo 2014

HER | LEI: un amore tutto elettronico.

Un film di Spike Jonze (2013) con Joaquin Phoenix, Amy Adams, Rooney Mara, Olivia Wilde.



Una fotografia straordinaria quella di Hoyte Van Hoytema, dai colori caldi (e tanto rosso!), che funge letteralmente da ‘padrona di casa’ nel lungometraggio ‘Her - Lei’, di Spike Jonze: un film poetico, emotivamente ricco, fatto di poche linee essenziali, realizzato grazie all’espressività dell’incredibile volto di Joaquin Phoenix e alla voce femminile, nella pellicola italiana interpretata da un'accattivante Micaela Ramazzotti. ‘Her’ ha vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale.

Il film è ambientato in un futuro non troppo lontano, nel quale le nuove tecnologie sono al centro dell’esistenza umana: tutti gli individui vivono quasi sempre con un micro-auricolare wireless infilato nell’orecchio e conversano costantemente con i loro cellulari iper-tecnologici che sbrigano qualsiasi tipo di incombenza per i loro proprietari, lavorativa e non.

Theodore Twombly è un introverso e solitario collaboratore di una bizzarra agenzia nella quale è incaricato di scrivere lettere piene di affetto e sentimento per conto di terzi: la sua vita, al contrario, è molto scarna, Theodore infatti sta divorziando - suo malgrado - da una donna che ama ancora, bella, giovane ma perennemente insoddisfatta di sé. Theodore non ha quasi nessuna relazione amicale se non con un paio di colleghi e trascorre quasi tutta la vita davanti ad uno schermo (cellulare, computer). Quando torna a casa, suoi compagni fedeli sono il letto matrimoniale e un videogioco straordinariamente realistico nel quale si tuffa a capofitto per evadere dalle sue inconsistenti giornate. Una sera, per cercare un po’ di libidica distrazione, entra in una chat erotica bizzarramente perversa, ma nemmeno qui riesce a trovare un po’ di divertimento: dopo un buon inizio, la ‘lei’ di turno lo usa quasi come fosse un oggetto e lo scarica telefonicamente, riagganciando post-orgasmo e mollando il nostro anti-eroe incredulo ma soprattutto inappagato. Un’altra volta, accetta un appuntamento al buio proposto da amici: la donna che incontra è stupenda ma la sconosciuta si dimostra troppo ansiosa di definire un legame, cosa che naturalmente spaventa, scoraggia e mette in fuga il protagonista.


Un bel giorno Theodore decide di acquistare un nuovo sistema operativo e sceglie di optare per una voce di sesso femminile. Fin da subito, Samantha si mostra molto più di una sintesi vocale e, con voce suadente, lo induce immediatamente a flirtare con lei. Samantha si rivela attenta, affettuosa, smaniosa di condividere con lui stati d’animo per i quali non è stata programmata: è persino gelosa quando Theodore deve incontrare la ex moglie per concretizzare il divorzio, ma sa anche essere romantica, ‘passionale’, incredibilmente umana, ‘troppo umana’.

S. - ‘Che hai??
T. - ‘Niente …
S. - ‘Ti sento distratto … Non è un buon momento??

Samantha lo accompagna ovunque lui desideri: Theodore la infila in un taschino della camicia in modo da poter condividere con lei il parco giochi, la scampagnata con gli amici, la fase di addormentamento serale, le gratificazioni lavorative, i momenti di giocosa, buffonesca ilarità.
Dopo la fase iniziale di cautela sentimentale, superate le ragionevoli perplessità, Theodore si lascia completamente andare: è ‘Lei’ (‘Her’) la sua compagna, la donna ideale, l’unica che si attagli perfettamente alle sue abitudini, al suo carattere scontroso, a volte irascibile e difficile da decifrare. Samantha lo comprende, sa vedere in lui l’uomo sensibile, fragile, fondamentalmente buono, il dolce sognatore che è. Ormai ‘Lei’ è la sua partner ufficiale. 

Gli altri lo trovano diverso e gli fanno domande: come comunicare al mondo questa ‘strana’ relazione? Theodore è spaventato ma allo stesso tempo muore dal desiderio di presentarla a tutti: e lo fa. La collega incuriosita lo investe di domande: - ‘Stai con un OS?? Davverooo??? E com’è?!? Fate sesso? Ti stai innamorando di lei?’. La ex moglie, sconcertata e ferita, lo offende davanti ad una cameriera: - ‘Il mio ex marito ha preferito il suo portatile a me!!!’. 
Theodore è innamorato, ha riscoperto la passione amorosa e non può certo ragionare con il cervello: - ‘È tutto fantastico! … è bello stare con una persona che si emoziona per la vita!’



Come è ovvio, questa spuria relazione sentimentale tra l’essere umano e il computer è tragicamente impossibile da realizzare. Tra le altre cose, incredibile a dirsi, Theodore non è l’unico ad aver trasformato l’amore in un surrogato tecnologico: il protagonista si accorge che pian piano molti, come lui, hanno intrecciato una intensa relazione con questi sistemi operativi … e quindi la sua storia non è poi così straordinaria come aveva immaginato che fosse. Come fanno gli esseri umani, completamente invischiati in questi pseudo-legami, a trovare piena soddisfazione in rapporti elettronici, dal sapore di bit? Lascio a voi la conclusione di questa favola comico-dolce-amara e la visione del film. Buon viaggio!



domenica 16 marzo 2014

EREUTOFOBIA: timore o desiderio di apparire?

Dott.ssa Silvia Ferretti



Chiunque stia pensando di non aver mai avuto a che fare con questa strana parola è in errore. La parola “ereutofobia” (detta anche eritrofobia) deriva dal greco ἐρυθρός  «rossore», e viene definita un tratto fobico caratterizzato dal timore di arrossire. L’arrossamento del volto, in particolare delle guance, è dovuto ad un aumento della quantità di sangue nei vasi capillari e può capitare a chiunque, in situazioni di particolare imbarazzo o disagio. Quando, in tali situazioni, si sviluppa una forte paura di non poter fare a meno di arrossire, parliamo allora di ereutofobia. In genere, è tipica di persone particolarmente sensibili al giudizio degli altri, che di norma tende a giustificare questo tratto con problemi di comunicazione o di pudore. La maggior parte delle volte, accanto a questa fobia si innesca una sorta di circolo vizioso, una profezia che si autoavvera: più il fobico si preoccupa di arrossire e di farsi vedere in tale stato dalla gente e più arrossirà. Dunque, la stessa preoccupazione di arrossire genera un incremento dell’ereutofobia. Questa paura può apparire, agli occhi di chi non ne soffre, assurda ed infondata; in realtà, per coloro che ne soffrono, è seria e reale e può portare a fobie sociali addizionali, all’evitamento di situazioni che richiedono l’interazione con l’altro.



L’interpretazione psicanalitica dell’ereutofobia, invece, scorge un significato nascosto e quasi paradossale: dietro la paura di arrossire e mostrarsi agli altri, vi sarebbe, in realtà, un meccanismo di difesa che rimuove una forte tendenza all’esibizionismo o a pratiche sessuali censurate in quanto ritenute inaccettabili. Il rossore di tali individui, dunque, viene considerato un’erotizzazione esibizionistica del volto: la tendenza esibizionistica verrebbe rimossa, e successivamente negata con conseguente punizione. Ne deriverebbero il senso di vergogna e la necessità di sottrarsi ai giudizi e ai commenti altrui.

Rimane aperto, dunque, un interrogativo: il volto arrossato, è un segnale di vergogna, o invece un tentativo di metterlo in evidenza?

venerdì 14 marzo 2014

Smetto quando voglio …la triste realtà dei giovani italiani!!!!

Un film di Sydney Sibilia con Edoardo Leo, Valeria Solarino, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero de Rienzo, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti, Neri Marcorè.

   

La Roma dei nostri tempi e un giovane ricercatore universitario a cui viene negato il rinnovo dell'assegno di ricerca: Pietro Zinni ha 37 anni, una casa da pagare, bollette da saldare e una fidanzata da soddisfare.
Ha molti amici, tutti travolti dallo stesso destino: accademici finiti per strada.
Pietro non riesce ad accettare la sua nuova condizione e non intende umiliarsi come hanno fatto i suoi amici. È a questo punto che si ingegna e scopre una possibilità ai limiti della legalità: sintetizzare una nuova sostanza stupefacente.
Lo scopo è fare i soldi e vedersi restituita un briciolo di dignità …anche se non sarà proprio così!!! Ad un certo punto la realtà prende il sopravvento e la banda dei cervelloni si ritrova non solo senza lavoro e senza soldi ma anche a dover fare i conti con la legge.


Sydney Sibilia, l’esordiente regista salernitano, con Smetto quando voglio, fotografa una condizione sociale diffusa: il precariato d'eccellenza!!! Sceglie un genere che è la commedia perché vuole divertire il pubblico ma allo stesso tempo riesce a dipingere uno spaccato drammatico dell’Italia contemporanea e pertanto regala “amare risate”.
Il film mette in evidenza il tema del vuoto d'identità che accomuna i giovani e che vede un’intera generazione rincorrere il proprio destino tra il desiderio di realizzazione e la delusione per le continue frustrazioni.
I protagonisti, oltre Pietro Zinni, sono per l’appunto un gruppo di accademici costretti a ripiegare su tutt’altro per sopravvivere. Ci sono due eccellenti latinisti che pur di guadagnare fanno i benzinai per un cingalese; un economista che si spaccia innamorato di una circense per raccattare vitto e alloggio; un antropologo che disperato va a cercare lavoro da uno sfasciacarrozze; un archeologo che lavora gratis per amore della cultura e un chimico che fa il lavapiatti in un ristorante cinese.
Questo quadro è alquanto esemplificativo e riproduce fedelmente la cruda realtà della nostra società.

Tra le presentazioni dei vari personaggi mi colpisce particolarmente la scena del colloquio di lavoro di Andrea l’antropologo. Pur di essere assunto dallo sfasciacarrozze si spaccia per “uomo di strada”, sia nell’abbigliamento che nell’atteggiamento, per poi perdere credibilità a causa di una erudita espressione, retaggio della sua formazione accademica. A questo punto svanisce la possibilità di essere assunto perché laureato. Insomma: viene tradito dal suo stesso curriculum. È troppo qualificato per quel lavoro!!! 
Quanto appena descritto non è lontano da quello che accade nella nostra società. Troppi giovani laureati e specializzati provano a ripiegare su lavori diversi da quelli per cui si sono formati. Spesso sono costretti ad omettere le proprie competenze con la speranza di ottenere un posto di lavoro per cui laurea, master, dottorato e specializzazione sono superflui. Questo è un paradosso fondato!
 
“…Si è vero, sono laureato, ma è un errore di gioventù del quale sono profondamente consapevole!”

Nel film come nella realtà si narra di un mondo accademico che garantisce poche soddisfazioni e altrettanti scarsi guadagni, demotivando i giovani allo studio e spingendoli alla ricerca di soddisfazioni più frivole e veloci. Si palesa la voglia di rivalsa per una vita trascorsa inutilmente sui libri, l’umiliazione di non potersi permettere di avere una propria famiglia e di poterla mantenere e la frustrazione di vedersi intrappolato in un sistema in cui la meritocrazia è utopia.
Smetto quando voglio finisce per essere una fedele descrizione del mondo reale. Anche se alla fine del film si evidenzia la consapevolezza che il sapere è un arma fortissima il pubblico non potrà non cogliere l’amarezza per quella che è la narrazione della realtà di un’intera generazione di giovani disoccupati.

venerdì 7 marzo 2014

Primo appuntamento con la professione psicologica.

Psicologo del traffico: come evitare di fare la fine di Michael Douglas in ‘Un giorno di ordinaria follia’.


Dott.ssa Giorgia Aloisio

Sicuramente molti lettori conosceranno il celebre film ‘Un giorno di ordinaria follia’, o ne avranno quanto meno sentito parlare: in questa pellicola del ’93, Bill Foster (impersonato dallo straordinario quanto credibile Michael Douglas) è un uomo vessato da una serie di drammatiche vicissitudini personali (perdita del lavoro, grave crisi coniugale, incomunicabilità con la figlia). Un giorno, che sembra avere luogo nel solito ‘ordinario tran tran’, Bill, appesantito dal caldo torrido e dal nervosismo accumulato, esplode come una bomba atomica: la goccia che fa traboccare il vaso è un momento di traffico autostradale davvero insostenibile (anche per gli spettatori!). In questa sgradevole occasione, il protagonista prova per l’ennesima volta un mix di rabbia e impotenza che lo conducono a trasformarsi da grigio, incravattato impiegato d’azienda, in un temibile aggressore munito di mazza da baseball e armi di sterminio, una specie di crudele giustiziere che comincia a somministrare odio, paura, orrore con la freddezza di un gangster navigato: e lo fa un po’ dove capita, dal misero negozietto coreano al quartiere latino. Ogni scusa diventa buona per tirare fuori le armi e minacciare l’altro: anche quando la cameriera gli fa presente che non è più ora di servire la colazione. Eccolo in una immagine davvero evocativa e, direi, spaventosa, del film.

Un giorno di ordinaria follia (nella foto: M. Douglas)

Se Bill avesse avuto modo di sfogare almeno in parte questo intenso stato di frustrazione, se qualcuno gli avesse chiesto come si sentisse, quel giorno o uno dei precedenti e magari gli avesse mostrato supporto, empatia, ascolto, forse tutta quella violenta follia non avrebbe avuto luogo (e che fine avrebbe fatto il film??). Ci sarebbe proprio voluto uno psicologo capace e competente per placare quell’ira funesta…

Questo spunto cinematografico ci fa riflettere sul fatto che, spesso, poche sollecitazioni possono bastare per raggiungere il livello di massima sopportazione e scatenare una reazione abnorme, anomala e decisamente ‘sopra le righe’: in questo caso, a far scoccare la scintilla finale è stato uno di quei cosiddetti ‘budelli’ costituiti da una interminabile fila di automobili ammassate e bloccate su un tratto stradale. Naturalmente, le occasioni per ‘oltrepassare il limite’ e dare in escandescenza possono essere le più varie, dalle più banali a quelle più inusuali. Ciò che un individuo può imparare a fare su se stesso è accorgersi del momento in cui avviene questa specie di passaggio, dallo stato di calma apparente alla rapida e violenta reazione: apprendere da alcuni segnali interiori che qualcosa sta accadendo nel nostro mondo psichico è già un passo avanti utile - a prevenire prima e acquietare poi - questi istinti a volte così distruttivi per noi e per gli altri.


Torniamo alla psicologia, il ‘faro’ che può far luce su molte delle dinamiche psichiche umane. Questa disciplina può essere d’aiuto anche per la strada: infatti, in questi ultimi anni si è iniziato a parlare anche in Italia di psicologi/psicologhe del traffico. Si tratta di una figura professionale già esistente nei paesi del Nord Europa (prima o poi dovremo abituarci a questo eterno squilibrio Europa del Nord/resto dell’Europa), deputata a minimizzare i rischi per la salute psicofisica collegati ai trasporti e ai mezzi di locomozione e a massimizzare la sicurezza stradale. 

La psicologia del traffico studia gli effetti delle sostanze sulla guida (quindi droghe, alcool, farmaci), di affaticamento, mancanza di sonno, patologie croniche, età dei conducenti (comportamento dei neopatentati e degli anziani), ma si occupa anche della percezione di rischio, compiti di guida, performance, fattori emotivi e cognitivi connessi alla guida e al soccorso in caso di vittime o testimoni di incidenti stradali. Anche le condotte trasgressive e le differenze individuali sono oggetto della psicologia del traffico, insieme alla progettazione congiunta con altre figure connesse all’ambito stradale, quali ingegneri urbanisti, medici, infermieri, operatori sociosanitari, avvocati, sociologi, pedagogisti, Forze dell’Ordine, epidemiologi. Questa disciplina si occupa, inoltre, di progettare la cartellonistica e la segnaletica adatte ai messaggi che questi intendono comunicare.

Le discipline che si connettono tra loro per raggiungere questo scopo, sono la psicologia clinica, la generale, cognitiva applicata, psicologia della salute, sociale, della comunicazione, ergonomica. 


mercoledì 5 marzo 2014

I segni del Bullismo



Il bullismo è un fenomeno che interessa la società dall’inizio degli anni ’70 e che si è diffuso sempre più dilagando in tutti i contesti sociali interessando una fascia di età sempre più amplia.
Con il termine bullismo si intende una forma di condotta violenta caratterizzata da intenzionalità, persistenza nel tempo e asimmetria nella relazione. Vale a dire un'azione intenzionale eseguita al fine di arrecare danno alla vittima, continuata nel tempo e caratterizzata da uno squilibrio di potere tra chi compie l'azione e chi la subisce.
Queste azioni possono includere aggressività fisica, biasimi verbali, forme scritte offensive, discriminazioni dal gruppo dei pari, molestie, plagio e altre coercizioni come il cyber-bullismo (tanto di moda oggi!!!).


Nei primi anni di studio di questo fenomeno l’attenzione era rivolta principalmente alla criminogenesi del bullismo e cioè sulle cause del fenomeno ma con il suo dilagare si è reso necessario un intervento sulle conseguenze che questa condotta implica sulle sue vittime.
Recentemente, sulla rivista Pediatrics, è stata pubblicata una ricerca condotta dai membri del Boston Children's Hospital, coordinati dalla dottoressa Laura Bogart. Questa ricerca vuole mettere in evidenza soprattutto le conseguenze a lungo termine per le vittime di bullismo.


Gli autori della ricerca ritengono che il bullismo a lungo termine abbia un grave impatto sulla salute generale del bambino/adolescente e che i suoi effetti negativi possano accumularsi e conseguentemente peggiorare la situazione nel corso del tempo. Sembrerebbe che queste vittime soffrano di peggiori condizioni mentali e fisiche anche negli anni a venire. Sul campione in esame sono stati registrati un aumento dei sintomi depressivi e una ridotta autostima. Sembrerebbe inoltre che tali sintomi purtroppo non scemano con il trascorrere degli anni ripercuotendosi sui vari aspetti della vita quotidiana come le relazioni interpersonali, lo sviluppo delle proprie abilità e la soddisfazione personale.
Questa ricerca evidenzia il bisogno di intervenire in modo tempestivo su più fronti cosi da provare a contenere ed arginare le infauste conseguenze di una cronicizzazione del bullismo. In questo, scuola e famiglia possono fare molto per aiutare i nostri ragazzi e fornire loro validi strumenti per contrastare il bullismo sul nascere.