Vi è mai capitato di sperimentare
una permanenza in ospedale?
Beh, qualche tempo fa, grazie ad un incidente, anch’io ho avuto il “piacere” di ritrovarmi dapprima in ambulanza, poi al pronto soccorso e per finire in bellezza ricoverata in due diversi reparti a distanza di pochi giorni.
Come è stato? …Direi
traumatico!!!
Certo, chi gradirebbe un
soggiorno in ospedale?!!!
Il viaggio è iniziato con una
grande razionalità e freddezza: avevo bisogno di difendermi e capire cosa mi
era successo, cosa mi avrebbero fatto i dottori e quale era la diagnosi.
Appurato che non ero in pericolo
di vita le difese hanno ceduto il passo allo spavento che fino a quel momento ero
riuscita a controllare. Ancora stordita e frastornata ho realizzato che non era
un incubo (come speravo e desideravo) bensì la realtà: ero in un letto
d’ospedale, consapevole delle conseguenze dell’incidente ma ignoravo ancora una
condizione: ora, ero una “paziente”!!!
Accedere in ospedale implica un
cambiamento di status: da persona a
paziente …ed io avevo sottovalutato questo passaggio.
Quando ho realizzato la mia nuova
condizione e ciò che ne conseguiva ho iniziato a pormi una serie di domande che
desidero condividere con voi miei cari lettori.
Mi sono chiesta: ma il paziente
non è una persona? …Una persona con bisogni
fisici e psichici accentuati ed
alterati da una nuova condizione traumatica (malattia o incidente)? Un paziente
non ha forse bisogno di essere accolto, accudito, ascoltato e rispettato nella
sua dignità di essere umano?
È così difficile prendersi cura dell’altro nella sua
totalità? La relazione d’aiuto non dovrebbe
guidare ed ispirare coloro che lavorano in ambito sanitario?
Se tutto ciò è legittimo allora perché ancora oggi c’è una grande fetta di professionisti (si fa per dire!) che lo dimentica?
È così impegnativo sorridere ad
un paziente? È davvero così difficile accoglierlo con delicatezza, prendersene
cura con gentilezza ed accompagnarlo con empatia nel già tanto doloroso percorso
di malattia? …Insomma, aiutare l’altro
è così arduo?
Durante la mia permanenza in ospedale ho avuto modo di riflettere molto su quest’argomento e sono giunta ad una triste considerazione: molti dottori, infermieri e tecnici di laboratori forse hanno dimenticato di lavorare con persone che soffrono e che hanno bisogno del loro rispetto e della loro gentilezza oltre che della loro professionalità.
In molte occasioni mi è sembrato
che il paziente rappresentasse il capro espiatorio perfetto: provato fisicamente
ed emotivamente, bisognoso, remissivo, timoroso e troppo dolorante e spaventato
per reagire. Insomma la vittima ideale
per un medico nervoso o un infermiere rabbioso per ragioni personali o comunque
non riconducibili in alcun modo al paziente.
Forse, se imparassero ad ascoltare i pazienti imparerebbero a diventare delle persone migliori e di
conseguenza dei professionisti migliori.
Per fortuna ci sono anche medici
e infermieri capaci di farlo a priori!!!
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