domenica 16 marzo 2014

EREUTOFOBIA: timore o desiderio di apparire?

Dott.ssa Silvia Ferretti



Chiunque stia pensando di non aver mai avuto a che fare con questa strana parola è in errore. La parola “ereutofobia” (detta anche eritrofobia) deriva dal greco ἐρυθρός  «rossore», e viene definita un tratto fobico caratterizzato dal timore di arrossire. L’arrossamento del volto, in particolare delle guance, è dovuto ad un aumento della quantità di sangue nei vasi capillari e può capitare a chiunque, in situazioni di particolare imbarazzo o disagio. Quando, in tali situazioni, si sviluppa una forte paura di non poter fare a meno di arrossire, parliamo allora di ereutofobia. In genere, è tipica di persone particolarmente sensibili al giudizio degli altri, che di norma tende a giustificare questo tratto con problemi di comunicazione o di pudore. La maggior parte delle volte, accanto a questa fobia si innesca una sorta di circolo vizioso, una profezia che si autoavvera: più il fobico si preoccupa di arrossire e di farsi vedere in tale stato dalla gente e più arrossirà. Dunque, la stessa preoccupazione di arrossire genera un incremento dell’ereutofobia. Questa paura può apparire, agli occhi di chi non ne soffre, assurda ed infondata; in realtà, per coloro che ne soffrono, è seria e reale e può portare a fobie sociali addizionali, all’evitamento di situazioni che richiedono l’interazione con l’altro.



L’interpretazione psicanalitica dell’ereutofobia, invece, scorge un significato nascosto e quasi paradossale: dietro la paura di arrossire e mostrarsi agli altri, vi sarebbe, in realtà, un meccanismo di difesa che rimuove una forte tendenza all’esibizionismo o a pratiche sessuali censurate in quanto ritenute inaccettabili. Il rossore di tali individui, dunque, viene considerato un’erotizzazione esibizionistica del volto: la tendenza esibizionistica verrebbe rimossa, e successivamente negata con conseguente punizione. Ne deriverebbero il senso di vergogna e la necessità di sottrarsi ai giudizi e ai commenti altrui.

Rimane aperto, dunque, un interrogativo: il volto arrossato, è un segnale di vergogna, o invece un tentativo di metterlo in evidenza?

venerdì 14 marzo 2014

Smetto quando voglio …la triste realtà dei giovani italiani!!!!

Un film di Sydney Sibilia con Edoardo Leo, Valeria Solarino, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero de Rienzo, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti, Neri Marcorè.

   

La Roma dei nostri tempi e un giovane ricercatore universitario a cui viene negato il rinnovo dell'assegno di ricerca: Pietro Zinni ha 37 anni, una casa da pagare, bollette da saldare e una fidanzata da soddisfare.
Ha molti amici, tutti travolti dallo stesso destino: accademici finiti per strada.
Pietro non riesce ad accettare la sua nuova condizione e non intende umiliarsi come hanno fatto i suoi amici. È a questo punto che si ingegna e scopre una possibilità ai limiti della legalità: sintetizzare una nuova sostanza stupefacente.
Lo scopo è fare i soldi e vedersi restituita un briciolo di dignità …anche se non sarà proprio così!!! Ad un certo punto la realtà prende il sopravvento e la banda dei cervelloni si ritrova non solo senza lavoro e senza soldi ma anche a dover fare i conti con la legge.


Sydney Sibilia, l’esordiente regista salernitano, con Smetto quando voglio, fotografa una condizione sociale diffusa: il precariato d'eccellenza!!! Sceglie un genere che è la commedia perché vuole divertire il pubblico ma allo stesso tempo riesce a dipingere uno spaccato drammatico dell’Italia contemporanea e pertanto regala “amare risate”.
Il film mette in evidenza il tema del vuoto d'identità che accomuna i giovani e che vede un’intera generazione rincorrere il proprio destino tra il desiderio di realizzazione e la delusione per le continue frustrazioni.
I protagonisti, oltre Pietro Zinni, sono per l’appunto un gruppo di accademici costretti a ripiegare su tutt’altro per sopravvivere. Ci sono due eccellenti latinisti che pur di guadagnare fanno i benzinai per un cingalese; un economista che si spaccia innamorato di una circense per raccattare vitto e alloggio; un antropologo che disperato va a cercare lavoro da uno sfasciacarrozze; un archeologo che lavora gratis per amore della cultura e un chimico che fa il lavapiatti in un ristorante cinese.
Questo quadro è alquanto esemplificativo e riproduce fedelmente la cruda realtà della nostra società.

Tra le presentazioni dei vari personaggi mi colpisce particolarmente la scena del colloquio di lavoro di Andrea l’antropologo. Pur di essere assunto dallo sfasciacarrozze si spaccia per “uomo di strada”, sia nell’abbigliamento che nell’atteggiamento, per poi perdere credibilità a causa di una erudita espressione, retaggio della sua formazione accademica. A questo punto svanisce la possibilità di essere assunto perché laureato. Insomma: viene tradito dal suo stesso curriculum. È troppo qualificato per quel lavoro!!! 
Quanto appena descritto non è lontano da quello che accade nella nostra società. Troppi giovani laureati e specializzati provano a ripiegare su lavori diversi da quelli per cui si sono formati. Spesso sono costretti ad omettere le proprie competenze con la speranza di ottenere un posto di lavoro per cui laurea, master, dottorato e specializzazione sono superflui. Questo è un paradosso fondato!
 
“…Si è vero, sono laureato, ma è un errore di gioventù del quale sono profondamente consapevole!”

Nel film come nella realtà si narra di un mondo accademico che garantisce poche soddisfazioni e altrettanti scarsi guadagni, demotivando i giovani allo studio e spingendoli alla ricerca di soddisfazioni più frivole e veloci. Si palesa la voglia di rivalsa per una vita trascorsa inutilmente sui libri, l’umiliazione di non potersi permettere di avere una propria famiglia e di poterla mantenere e la frustrazione di vedersi intrappolato in un sistema in cui la meritocrazia è utopia.
Smetto quando voglio finisce per essere una fedele descrizione del mondo reale. Anche se alla fine del film si evidenzia la consapevolezza che il sapere è un arma fortissima il pubblico non potrà non cogliere l’amarezza per quella che è la narrazione della realtà di un’intera generazione di giovani disoccupati.

venerdì 7 marzo 2014

Primo appuntamento con la professione psicologica.

Psicologo del traffico: come evitare di fare la fine di Michael Douglas in ‘Un giorno di ordinaria follia’.


Dott.ssa Giorgia Aloisio

Sicuramente molti lettori conosceranno il celebre film ‘Un giorno di ordinaria follia’, o ne avranno quanto meno sentito parlare: in questa pellicola del ’93, Bill Foster (impersonato dallo straordinario quanto credibile Michael Douglas) è un uomo vessato da una serie di drammatiche vicissitudini personali (perdita del lavoro, grave crisi coniugale, incomunicabilità con la figlia). Un giorno, che sembra avere luogo nel solito ‘ordinario tran tran’, Bill, appesantito dal caldo torrido e dal nervosismo accumulato, esplode come una bomba atomica: la goccia che fa traboccare il vaso è un momento di traffico autostradale davvero insostenibile (anche per gli spettatori!). In questa sgradevole occasione, il protagonista prova per l’ennesima volta un mix di rabbia e impotenza che lo conducono a trasformarsi da grigio, incravattato impiegato d’azienda, in un temibile aggressore munito di mazza da baseball e armi di sterminio, una specie di crudele giustiziere che comincia a somministrare odio, paura, orrore con la freddezza di un gangster navigato: e lo fa un po’ dove capita, dal misero negozietto coreano al quartiere latino. Ogni scusa diventa buona per tirare fuori le armi e minacciare l’altro: anche quando la cameriera gli fa presente che non è più ora di servire la colazione. Eccolo in una immagine davvero evocativa e, direi, spaventosa, del film.

Un giorno di ordinaria follia (nella foto: M. Douglas)

Se Bill avesse avuto modo di sfogare almeno in parte questo intenso stato di frustrazione, se qualcuno gli avesse chiesto come si sentisse, quel giorno o uno dei precedenti e magari gli avesse mostrato supporto, empatia, ascolto, forse tutta quella violenta follia non avrebbe avuto luogo (e che fine avrebbe fatto il film??). Ci sarebbe proprio voluto uno psicologo capace e competente per placare quell’ira funesta…

Questo spunto cinematografico ci fa riflettere sul fatto che, spesso, poche sollecitazioni possono bastare per raggiungere il livello di massima sopportazione e scatenare una reazione abnorme, anomala e decisamente ‘sopra le righe’: in questo caso, a far scoccare la scintilla finale è stato uno di quei cosiddetti ‘budelli’ costituiti da una interminabile fila di automobili ammassate e bloccate su un tratto stradale. Naturalmente, le occasioni per ‘oltrepassare il limite’ e dare in escandescenza possono essere le più varie, dalle più banali a quelle più inusuali. Ciò che un individuo può imparare a fare su se stesso è accorgersi del momento in cui avviene questa specie di passaggio, dallo stato di calma apparente alla rapida e violenta reazione: apprendere da alcuni segnali interiori che qualcosa sta accadendo nel nostro mondo psichico è già un passo avanti utile - a prevenire prima e acquietare poi - questi istinti a volte così distruttivi per noi e per gli altri.


Torniamo alla psicologia, il ‘faro’ che può far luce su molte delle dinamiche psichiche umane. Questa disciplina può essere d’aiuto anche per la strada: infatti, in questi ultimi anni si è iniziato a parlare anche in Italia di psicologi/psicologhe del traffico. Si tratta di una figura professionale già esistente nei paesi del Nord Europa (prima o poi dovremo abituarci a questo eterno squilibrio Europa del Nord/resto dell’Europa), deputata a minimizzare i rischi per la salute psicofisica collegati ai trasporti e ai mezzi di locomozione e a massimizzare la sicurezza stradale. 

La psicologia del traffico studia gli effetti delle sostanze sulla guida (quindi droghe, alcool, farmaci), di affaticamento, mancanza di sonno, patologie croniche, età dei conducenti (comportamento dei neopatentati e degli anziani), ma si occupa anche della percezione di rischio, compiti di guida, performance, fattori emotivi e cognitivi connessi alla guida e al soccorso in caso di vittime o testimoni di incidenti stradali. Anche le condotte trasgressive e le differenze individuali sono oggetto della psicologia del traffico, insieme alla progettazione congiunta con altre figure connesse all’ambito stradale, quali ingegneri urbanisti, medici, infermieri, operatori sociosanitari, avvocati, sociologi, pedagogisti, Forze dell’Ordine, epidemiologi. Questa disciplina si occupa, inoltre, di progettare la cartellonistica e la segnaletica adatte ai messaggi che questi intendono comunicare.

Le discipline che si connettono tra loro per raggiungere questo scopo, sono la psicologia clinica, la generale, cognitiva applicata, psicologia della salute, sociale, della comunicazione, ergonomica. 


mercoledì 5 marzo 2014

I segni del Bullismo



Il bullismo è un fenomeno che interessa la società dall’inizio degli anni ’70 e che si è diffuso sempre più dilagando in tutti i contesti sociali interessando una fascia di età sempre più amplia.
Con il termine bullismo si intende una forma di condotta violenta caratterizzata da intenzionalità, persistenza nel tempo e asimmetria nella relazione. Vale a dire un'azione intenzionale eseguita al fine di arrecare danno alla vittima, continuata nel tempo e caratterizzata da uno squilibrio di potere tra chi compie l'azione e chi la subisce.
Queste azioni possono includere aggressività fisica, biasimi verbali, forme scritte offensive, discriminazioni dal gruppo dei pari, molestie, plagio e altre coercizioni come il cyber-bullismo (tanto di moda oggi!!!).


Nei primi anni di studio di questo fenomeno l’attenzione era rivolta principalmente alla criminogenesi del bullismo e cioè sulle cause del fenomeno ma con il suo dilagare si è reso necessario un intervento sulle conseguenze che questa condotta implica sulle sue vittime.
Recentemente, sulla rivista Pediatrics, è stata pubblicata una ricerca condotta dai membri del Boston Children's Hospital, coordinati dalla dottoressa Laura Bogart. Questa ricerca vuole mettere in evidenza soprattutto le conseguenze a lungo termine per le vittime di bullismo.


Gli autori della ricerca ritengono che il bullismo a lungo termine abbia un grave impatto sulla salute generale del bambino/adolescente e che i suoi effetti negativi possano accumularsi e conseguentemente peggiorare la situazione nel corso del tempo. Sembrerebbe che queste vittime soffrano di peggiori condizioni mentali e fisiche anche negli anni a venire. Sul campione in esame sono stati registrati un aumento dei sintomi depressivi e una ridotta autostima. Sembrerebbe inoltre che tali sintomi purtroppo non scemano con il trascorrere degli anni ripercuotendosi sui vari aspetti della vita quotidiana come le relazioni interpersonali, lo sviluppo delle proprie abilità e la soddisfazione personale.
Questa ricerca evidenzia il bisogno di intervenire in modo tempestivo su più fronti cosi da provare a contenere ed arginare le infauste conseguenze di una cronicizzazione del bullismo. In questo, scuola e famiglia possono fare molto per aiutare i nostri ragazzi e fornire loro validi strumenti per contrastare il bullismo sul nascere.



domenica 23 febbraio 2014

L’inconscio in bocca e altre storie.

Dott.ssa Giorgia Aloisio

- Oggi il treno è stato depresso…
- Depresso?? Volevi dire soppresso

- Mia moglie è andata via…
- Di casa??? 
- No, ma che hai capito!!!

Quante volte, nella vita di tutti i giorni, capitano - a noi e agli altri - episodi di questo genere? Una specie di ‘black-out’, un ‘buco nero’ inatteso e a volte imbarazzante, nella nostra quotidianità spesso così uguale a se stessa: basta un momento di distrazione e il gioco è fatto…  l’inconscio fa sentire la propria voce nella nostra esistenza. 
Dimentichiamo un oggetto nella carrozza del treno dal quale siamo appena scesi, acquistiamo un prodotto in un negozio e lo abbandoniamo prontamente nello stesso posto dove lo abbiamo comprato, ci passa completamente dalla memoria quel compleanno o quell'anniversario che sembravano così cruciali nelle nostre vite. Cosa succede? Di cosa si tratta? Demenza improvvisa? Momento di follia?

Tanto per cominciare, non c’è proprio nulla da allarmarsi: i lapsus linguae, gli atti mancati, le dimenticanze, sono fenomeni assolutamente universali e normali (certo, quando non accadono di continuo), anzi, a volte sono meccanismi di sopravvivenza per le nostre menti sovraccariche e stressate. Sono eventi normali, noti da sempre, sui quali si è molto soffermato a riflettere Sigmund Freud in alcuni celebri saggi (per chi fosse interessato, davvero spassosi e di agevole lettura) quali ad esempio Psicopatologia della vita quotidiana.



Si tratta di modalità automatiche, inconsapevoli attraverso le quali la parte più insondabile della psiche trova una sorta di ‘valvola di sfogo’. In questo modo, la nostra mente tira fuori contenuti che non le è possibile reprimere (o non lo è più). Spesso ci capita di essere a disagio, di sentirci infastiditi o magari rabbiosi nei confronti di situazioni (come ad esempio in certe dinamiche lavorative o familiari) o persone (i nostri ‘capi’ o anche i nostri sottoposti, i figli, i genitori): non sempre è possibile mostrare all'esterno i nostri stati d’animo, anzi, direi che buona parte delle nostre impressioni ed emozioni resta in qualche modo sopita, perché negoziazione e accettazione sono ingredienti indispensabili per un buon adattamento sociale, ma senza esagerare. Non sempre ci è possibile reprimere tutto, in particolare quando il carico di pressioni si fa troppo pesante: in questi casi la mente, per stare meglio, si libera di questo scomodo materiale e lo espelle. Una psiche un po’ birichina, che ci fa qualche scherzetto che ci saremmo volentieri risparmiati, se solo avessimo potuto.



Spesso, dopo un lapsus o una dimenticanza, ci sentiamo imbarazzati, specie quando ci sono di mezzo altri individui: torniamo per un momento a quella volta nella quale pensavamo di aver inviato un SMS critico ad una persona e ci siamo accorti, invece, di averlo mandato proprio al soggetto che avevamo appena criticato… avremmo preferito celare certi pensieri o affetti, ma così non è stato e l’imbarazzo, la vergogna, il senso di colpa sono le sensazioni più normali a seguito di questi piccoli o grandi ‘incidenti’. In realtà, dopo un po’ di tempo, ci accorgiamo di provare come una sensazione di benessere, piacere, leggerezza, come se qualcosa di annodato si fosse improvvisamente sciolto e le emozioni sgradevoli del passato risultassero silenziate, a volte completamente sparite: tutto merito di quella frasetta scomoda, quella parolina partita come da un nostro stato di ‘trance ipnotica’. 

Prima di mal giudicare un atto mancato, un lapsus, una dimenticanza, rispettiamolo e fermiamoci a riflettere: quali sono state le cause dell’atto? Quali le conseguenze? Covavamo astio verso una persona che abbiamo sempre trattato con eccessiva reverenza, anche con ipocrisia e troppe inutili smancerie? Forse sarebbe stato meglio essere più sobri e sinceri: a volte basta così poco per stare bene e l’esistenza, è proprio vero, ce la complichiamo anche da soli, … 
Quel ‘black-out’ ci invia un messaggio importante, che in precedenza non avevamo voluto ascoltare e che ora si impone con tanta determinatezza, quasi fosse autonomo da noi: proviamo ad ascoltarci di più e saremo meno preda di questi scherzetti. Imparare dall'esperienza è un modo utile per conoscerci e relazionarci agli altri: guardiamoci e proviamo a sorriderci più spesso, se possibile.

Sbaràzzati del malcontento sul tuo essere, perdònati il tuo io, giacché in ogni caso hai in te una scala dai cento gradini sulla quale puoi salire verso la conoscenza.
F. Nietzsche, Umano troppo umano


venerdì 14 febbraio 2014

Lo sapevate che il Paziente è una Persona?

Dott.ssa Alessandra Paladino

Vi è mai capitato di sperimentare una permanenza in ospedale?


Beh, qualche tempo fa, grazie ad un incidente, anch’io ho avuto il “piacere” di ritrovarmi dapprima in ambulanza, poi al pronto soccorso e per finire in bellezza ricoverata in due diversi reparti a distanza di pochi giorni.
Come è stato? …Direi traumatico!!!
Certo, chi gradirebbe un soggiorno in ospedale?!!!
Il viaggio è iniziato con una grande razionalità e freddezza: avevo bisogno di difendermi e capire cosa mi era successo, cosa mi avrebbero fatto i dottori e quale era la diagnosi.
Appurato che non ero in pericolo di vita le difese hanno ceduto il passo allo spavento che fino a quel momento ero riuscita a controllare. Ancora stordita e frastornata ho realizzato che non era un incubo (come speravo e desideravo) bensì la realtà: ero in un letto d’ospedale, consapevole delle conseguenze dell’incidente ma ignoravo ancora una condizione: ora, ero una “paziente”!!!
Accedere in ospedale implica un cambiamento di status: da persona a paziente …ed io avevo sottovalutato questo passaggio.
Quando ho realizzato la mia nuova condizione e ciò che ne conseguiva ho iniziato a pormi una serie di domande che desidero condividere con voi miei cari lettori.
Mi sono chiesta: ma il paziente non è una persona? …Una persona con bisogni fisici e psichici accentuati ed alterati da una nuova condizione traumatica (malattia o incidente)? Un paziente non ha forse bisogno di essere accolto, accudito, ascoltato e rispettato nella sua dignità di essere umano?
È così difficile prendersi cura dell’altro nella sua totalità? La relazione d’aiuto non dovrebbe guidare ed ispirare coloro che lavorano in ambito sanitario?


Se tutto ciò è legittimo allora perché ancora oggi c’è una grande fetta di professionisti (si fa per dire!) che lo dimentica?
È così impegnativo sorridere ad un paziente? È davvero così difficile accoglierlo con delicatezza, prendersene cura con gentilezza ed accompagnarlo con empatia nel già tanto doloroso percorso di malattia? …Insomma, aiutare l’altro è così arduo?


Durante la mia permanenza in ospedale ho avuto modo di riflettere molto su quest’argomento e sono giunta ad una triste considerazione: molti dottori, infermieri e tecnici di laboratori forse hanno dimenticato di lavorare con persone che soffrono e che hanno bisogno del loro rispetto e della loro gentilezza oltre che della loro professionalità.
In molte occasioni mi è sembrato che il paziente rappresentasse il capro espiatorio perfetto: provato fisicamente ed emotivamente, bisognoso, remissivo, timoroso e troppo dolorante e spaventato per reagire.  Insomma la vittima ideale per un medico nervoso o un infermiere rabbioso per ragioni personali o comunque non riconducibili in alcun modo al paziente.
Forse, se imparassero ad ascoltare i pazienti imparerebbero a diventare delle persone migliori e di conseguenza dei professionisti migliori.
Per fortuna ci sono anche medici e infermieri capaci di farlo a priori!!!  

mercoledì 12 febbraio 2014

Ci pensa … Rocco? Quando il porno diventa psico.



Qualche venerdì fa, su 'Cielo' intorno alle 23, mi sono imbattuta in Ci pensa Rocco: in questa trasmissione televisiva, il più celebre tra i re dell'hard, Rocco Siffredi, corre in soccorso di coppie a bassa prestazione sessuale che vorrebbero ritrovare il vigore del passato. Tra incredulità e curiosità, io stessa ho ceduto alle lusinghe di Rocco e mi sono lasciata andare alla puntata. Devo ammettere che non ho perso mai la concentrazione; in alcuni momenti mi sono persino divertita. Stimo Siffredi per la sua autoironia e il coraggio di mettersi alla prova in ruoli diversi da quelli che lo hanno caratterizzato nel passato.



Cosa dire della trasmissione? Quando fino a non molto tempo fa si pensava a Rocco Siffredi, il riferimento era sempre e solo al mondo della pornografia: oggi che ha cinquant'anni, lo stallone nostrano - dal nitrito un po' grave e non più puledro di primo pelo, con tanto di occhialetti stilosi da intellettuale, camicia bianca e papillon - ha dismesso i panni del voglioso, irresistibile rapace, per vestire quelli del bizzarro, insolito e un po' scialbo (psico)terapeuta. Tra 'strip-running' (rocamboleschi smutandamenti in corsa) e 'body-food' (abbuffate in osteria sul corpo discinto del partner), consigli su nuove posizioni per fare sesso (conoscete la 'posizione del castoro'?), giochi di ruolo casarecci e roghi a base di biancheria intima adatta a vostra nonna, Rocco diventa nume tutelare della coppia in crisi, sarcasticamente profeta, come lo vediamo nella pubblicità di questa trasmissione televisiva durante la quale evoca frasi di personaggi del mondo fantasy o di celebri pellicole (http://www.youtube.com/watch?v=-HuLL-72YlQ), una guida per fidanzati già sgangherati o coniugi ormai afflosciati. 



Tra frasi fatte, consigli plastificati, oroscopi pecorecci, domande indiscrete, il nostro eroe si destreggia dall'alto della sua poltrona professorale e ammaestra gli imbranati e increduli allievi che, certo, non hanno che da imparare dall'erudito titolare di cattedra. Una bella spolverata di pepe in più … e la coppia è magicamente ricomposta!



Se solo fosse vero. Se fosse così semplice risolvere i problemi esclusivamente dal lato della loro patina più esterna e superficiale! Non è certo colpa di Rocco: il qualunquismo mediatico e il devastante ma imperante relativismo culturale portano a banalizzare i problemi dell'individuo, le sue complesse stratificazioni psicologiche e le sue innumerevoli relazioni. Problemi comuni, sicuramente di straordinaria complessità ma soluzioni purtroppo di una banalità che può solo sconcertare. L'intuito psicologico non manca di certo, in questa produzione: peccato non basti quello per risolvere i reali problemi delle persone.