giovedì 31 ottobre 2013

Mens sana in Corpore sano: sport e intelligenza


Un team di ricercatori americani ha finalmente reso noto il perché praticare sport rende le persone intelligenti: tutto merito dell’irisina.
Dallo studio americano diretto da Bruce Spiegelman del Dana-Faber Cancer Institute e Harvard Medical School di Boston, recentemente pubblicato sulla rivista Cell Metabolism, emerge che l’esercizio fisico stimola la sintesi dell’irisina, una molecola neuroprotettiva che potenzia le funzioni cognitive, favorendo l’apprendimento e la memoria. Sembrerebbe inoltre che la maggiore concentrazione di irisina a sua volta stimolerebbe l'aumento nel cervello di un fattore di fondamentale importanza per il potenziamento della memoria e dell'apprendimento: il fattore neutrofico BDNF.
Questo studio apporta dunque un ulteriore valore aggiunto all’attività sportiva.
Lo sport, oltre tutti i benefici a livello fisico, risulta essere un’ottima occasione per approfondire e migliorare la conoscenza di sé così da favorire anche notevoli vantaggi psichici ed educativi.
Ha un ruolo fondamentale e strategico rispetto alla crescita dei ragazzi e favorisce l’acquisizione di caratteristiche psicologiche e comportamentali che sono di fondamentale aiuto alla costruzione di una personalità sana.
I vantaggi del praticare sport sono davvero tanti. In primis favorisce la presa di contatto con se stessi, con la propria forza e la propria determinazione, oltre che con i propri limiti e poi insegna a riconoscere e a gestire le proprie emozioni, sia positive che negative.
Essendo inoltre un’attività che richiede grande impegno, responsabilità e il rispetto di regole ben precise, favorisce l’interiorizzazione di un sistema di norme e valori che abituano la persona ai rapporti con il mondo circostante. 
Anche se alcuni sport sono individuali si svolgono necessariamente in un contesto sociale (palestra, campetti, piscina) e questo stimola le relazioni interpersonali, sia con i pari che con gli adulti diversi dai genitori e dagli insegnanti. A ciò consegue lo sviluppo di competenze sociali e la capacità di lavorare in gruppo che sono di fondamentale utilità nella vita di ognuno di noi.  Inoltre lo sport aiuta a pianificare e ad organizzare il tempo (concetto piuttosto aleatorio per i giovanissimi), aiuta a lavorare per obiettivi e stimola la capacità di problem solving.
Insomma, il suggerimento che Giovenale fa nella sua satira è assolutamente funzionale all’essere della persona.

mercoledì 23 ottobre 2013

Slot machine? No grazie!




Cosa significa Slot-mob? Si tratta di un gruppo di persone costituito da docenti universitari romani di Economia, associazioni e movimenti studenteschi che premiano i locali senza slot-machine. Lo scopo di questo movimento è sensibilizzare le persone al pervasivo e diffuso problema della dipendenza da gioco (“ludopatia”), ormai una vera e propria emergenza sociale: questo genere di attività è spesso gestito dalla criminalità organizzata, con il consenso indiretto dello Stato che se da un lato è interessato a concedere autorizzazioni per giovarsi delle imposte che ne derivano, dall’altro deve in seguito investire veri e propri capitali per curare i danni che ne derivano alle persone (spesso studenti, disoccupati, anziani).



Gli Slot-mob combattono questa guerra con dolcezza: il loro modo per convincere i proprietari dei bar a non accettare di avere le Slot machine nel loro esercizio commerciale e compensarli dei mancati introiti consiste nell’organizzare grandi colazioni al bar… il 28 settembre 2013, a Milano, si sono riunite e hanno fatto colazione in un caffè di viale Jenner circa 300 persone!
Gli Slot-mob sono partiti da Biella il 27 settembre ’13 per raggiungere Milano, Teramo, Cagliari, Palermo, Catania, Trento, Reggio Emilia, Cremona, Roma e molte altre città.

Il nostro blog sostiene senza indugi questa giusta iniziativa!

Per maggiori informazioni: http://www.nexteconomia.org/slots-mob

Per una descrizione della ludopatia e dei suoi sintomi: sito del Ministero della Salute

martedì 15 ottobre 2013

I cani provano emozioni? Certamente!

Dott.ssa Giorgia Aloisio


I cani provano emozioni che somigliano a quelle dei bambini. Ne è convinto Gregory Berns, neuroscienziato della Emory University (Georgia, USA); questo dato è anche confermato dalle risonanze magnetiche alle quali sono stati sottoposte decine di cani negli ultimi due anni. Questa ricerca è stata pubblicata nell’ottobre ’13 sul New York Times con l’evocativo titolo Anche i cani sono persone. Questi esperimenti hanno rivelato l’attivazione del nucleo caudato, minuscola area immersa nella profondità del cervello che si mette in moto quando le persone provano emozioni. E da oggi, sappiamo che questo vale anche per i nostri cari amici cagnolini.


Diciamo pure addio alle  teorie di Ivan Pavlov, notissimo fisiologo russo che scoprì il riflesso condizionato e che spiegava le reazioni (emotive) dei cani come nient’altro se non banali risposte automatiche ad uno stimolo nervoso.
Sull’efficacia emozionale e sulla straordinaria ricchezza che il rapporto con gli animali può produrre, non avevamo certo bisogno di conferme scientifiche: chi possiede animali domestici conosce in prima persona quel magico, immediato e segreto legame emotivo che intreccia le vite umane con quelle animali! Chi vorrebbe averne uno e non lo ha (ancora) non avrà certo dimenticato le intense pagine dell’Odissea, quando Omero descrive il fido Argo, dopo vent’anni di lontananza dal suo padrone, che riconosce Ulisse travestito da mendicante e muore a seguito della irresistibile scossa emotiva; chi ha visto il commovente film ‘Hachiko’ ricorderà il tenace e appassionato attaccamento di Hachi al suo padrone scomparso.


Da sempre leali accompagnatori di persone non vedenti, i cani, oggi, ci sembrano più umani che in passato e con il pretesto della ricerca scientifica possiamo confortarci: ecco come mai il legame tra questi affettuosi animali e i loro padroni è così intenso e da sempre confermato in ogni luogo del globo. Cosa dire, poi, della pet-therapy, la terapia nella quale sono gli animali a ‘curare’ gli esseri umani? Delfini, cani, gatti, cavalli, conigli, sono e sono stati impiegati per affrontare alcuni tra i più diffusi disagi, soprattutto nella popolazione infantile, quali autismo, depressione, deficit mentale, isolamento sociale, ma anche nel caso di soggetti detenuti o da lungo tempo ospedalizzati. La pet-therapy è consigliata sia da medici che da psicologi, e funziona.
Il rapporto che unisce l’uomo all'animale, la comunicazione verbale e non verbale che si stabiliscono tra questi due poli, sono gli ingredienti che ci spingono a condividere la nostra vita con questi intuitivi, sensibili, adorabili amici a quattro zampe.



mercoledì 2 ottobre 2013

Dall’omosessualità all’omofobia



In queste ultime settimane mi sono soffermata a riflettere, in più di un’occasione, sul concetto di omofobia. Il tutto ha avuto inizio con un confronto tra amici in merito al nuovo Disegno di Legge in materia, approvato alla Camera e ora al Senato. Hanno fatto poi seguito una giornata studio organizzata dall’Ordine degli Psicologi del Lazio e la segnalazione, da parte di un’amica, della mostra “Masculin/Masculin” al museo d'Orsay dal 24 settembre al 2 gennaio. 

 

Nonostante sia ormai riconosciuto a livello mondiale che l’orientamento sessuale non è una scelta e che l’omosessualità è una variante normale della sessualità, l’avversione per i gay e le lesbiche persiste.


…Ma l’omofobia cos’è?

L’omofobia (dal greco όμός = stesso e φόβος = timore, paura) denota “disagio, svalutazione e avversione, su base psicologico-individuale e/o ideologico-collettiva, nei confronti delle persone omosessuali e dell’omosessualità stessa.” Il pensiero omofobico sembra essere dunque radicato nel genere umano e difficile da contrastare, sia su un piano personale che sociale/collettivo. Si riflette nelle istituzioni e nelle strutture portanti della nostra società: nella famiglia, nella scuola, nell'ambiente lavorativo, nella vita religiosa, nello sport e nei mass media.
Per dirlo alla Jung sembra essere consolidato nell’inconscio collettivo.

I sentimenti negativi, l’intolleranza e la rabbia nei confronti di gay e lesbiche sono purtroppo all’ordine del giorno: a volte si manifestano attraverso l’uso di un linguaggio e di slang offensivi, altre volte si traducono in atteggiamenti e comportamenti omofobici carichi di aggressività che caratterizzano numerosi episodi di cronaca.
Se questo panorama è già di per sé critico, diventa ancor più inquietante se si considera che l'insulto, la violenza psicologia e la discriminazione verso gli omosessuali vengono tacitamente approvati e ritenuti normali anche tra gli stessi adolescenti che in molte occasioni ritroviamo come autori di numerosi casi di bullismo omofobico.


A questo delicato scenario si aggiunge l’omofobia interiorizzata, una forma subdola di omofobia che consiste nell’interiorizzazione, più o meno inconsapevole, del pregiudizio che porta a vivere in modo conflittuale la propria omosessualità, fino a volerla negare o contrastare.
Possiamo ritenere che l'omofobia diventa omofobia interiorizzata attraverso il pregiudizio, la disinformazione, l'isolamento e la condanna sociale.
L’introiezione di un pensiero omofobico così strutturato comporta diverse conseguenze sulla psiche della persona omosessuale quali una scarsa accettazione e stima di sé; sentimenti d’incertezza, inferiorità e vergogna; la credenza che l'omosessualità sia sbagliata, sia qualcosa da negare e da nascondere; la non accettazione della propria omosessualità perché causa di un senso di ansia, colpa, vergogna, angoscia e tensione interiore; l’incapacità di comunicare agli altri il proprio orientamento (coming out); la convinzione di essere rifiutati a causa della propria omosessualità; il convincimento di essere inadeguati e indegni di essere amati e l’identificazione con tutti gli stereotipi denigratori derivanti dai pensieri omofobici.
In questo senso il proprio pregiudizio finisce per impedire la formazione di un'identità omosessuale positiva.

È semplice dedurre come l’esperienza di rifiuto e di oppressione possano determinare affaticamento emotivo, vissuti depressivi e di rabbia nella cultura gay, come diretta conseguenza delle manifestazioni del dovere essere invisibile ma è inaccettabile che ad oggi un omosessuale debba subire anche l’influenza omofobica e castrante dell’inconscio collettivo e sentirsi schiacciata da essa. Dunque bisogna intervenire con campagne di sensibilizzazione, soprattutto tra i giovanissimi, e prendere i dovuti provvedimenti per cercare di destrutturare il pensiero omofobico sia personale che collettivo.
 

Dott.ssa Alessandra Paladino

mercoledì 25 settembre 2013

Alunni in fuga: una riflessione sulla disabilità.

Avendo da più di dieci anni esperienza con alunni disabili, rimango costantemente sintonizzata sugli avvenimenti che provengono da questo tipo di realtà. Mi riferisco, nello specifico, a due notizie che mi hanno colpita: la prima, relativa al cartello affisso in una scuola privata ischitana che recitava ‘La scuola è chiusa per tutti, perché c'è la giornata dei disabili. Sono molto malati quindi i bambini si impressionano’, la seconda relativa ad alcuni genitori che hanno deciso di ritirare 6 bambini da una scuola elementare napoletana perché in classe c’era un alunno disabile (probabilmente autistico, ma le notizie non entrano nel dettaglio).


Chi di noi non ha mai avuto un compagno di classe o di scuola disabile? Io, per fare un esempio, sono stata in banco con un ragazzo con sindrome di Down, alle elementari.
A volte la disabilità include comportamenti fastidiosi per chi la vive da vicino: aggressività, rumorosità, odori/perdite sgradevoli e quant’altro. Altre volte, la ‘anormalità’ è silenziosa, come nel caso delle disabilità di tipo cognitivo (ritardo mentale), sensoriali (sordità, cecità, sordocecità), motorie (tetraparesi, sclerosi, …). Il mondo è bello perché vario: questo vale anche per la disabilità. Non è possibile vivere una vita senza aver mai avuto vicino un disabile: ormai, da alcuni anni, anche al lavoro ci troviamo a contatto con persone disabili, dal momento che una percentuale dei posti di lavoro è loro riservata.


A volte preferiamo dimenticare le ‘disabilità’ che ognuno di noi ha o ha avuto nella propria famiglia: nonni sordi o con una demenza, zii depressi, parenti affetti da franche patologie somatiche.

Ma allora, perché privare un figlio di questo tipo di esperienza, dal momento che, prima o poi, ci si dovrà comunque incontrare? Vogliamo far credere ai bambini che la disabilità, l’imperfezione, la fragilità umane non fanno parte di questo mondo? Procedendo di questo passo rischiamo di creare noi una disabilità ai nostri figli, che poi altro non è se non la meravigliosa ‘campana di vetro’ che ci illude di proteggerli: li priviamo di esperienze basilari, come il contatto con il disagio e la sofferenza empatica che fanno parte dell’avventura umana, senza sconti per nessuno.
Senza dubbio non è semplice rispondere alle domande di un bambino ‘normale’ che entra per la prima volta in contatto con un compagno disabile; i genitori sono costretti a rispondere alle sue domande, a dare un senso a ciò che spesso risulta del tutto immotivato, ad accogliere il suo turbamento, il senso di impotenza e lo sconvolgimento che è normale provare in situazioni di questo genere. Tutto questo fa parte della vita: genitori e maestri sono deputati ad introdurre i più giovani nel mondo, con le dovute cautele, certo, ma anche con le necessarie premesse e i dovuti incontri.

Per evitare che questi incontri si tramutino in ‘scontri’ sarebbe bene che il contatto e l’integrazione abili/disabili avvenga in età precoce, in modalità condivisa anche con gli altri coetanei (esempio: facendo turnare i vari compagni di banco dell’alunno disabile) e in un clima di inclusione. E sono proprio gli adulti (docenti e genitori) che dovrebbero facilitare questo processo di inserimento e accoglienza.


mercoledì 18 settembre 2013

Chiedere aiuto: una scelta preziosa


La richiesta di una consultazione psicologica è un momento fondamentale, che giocherà un ruolo di primo piano sulle scelte future del soggetto e sull’eventuale cammino psicologico.


Quando una persona decide di consultare uno psicologo, ciò avviene perché un vecchio equilibrio che prima funzionava, ora non regge più: il soggetto non può più appoggiarsi a nessun tipo di appiglio e prova la sensazione che non ci siano più vie d’uscita. La psicoterapia, dunque, può assumere anche l’aspetto dell’ultima spiaggia, l’ultimo doloroso ed incerto tentativo di dare (forse) pace alla propria inquietudine. A volte questo percorso ci viene suggerito da un amico, da un familiare, altre volte dal medico curante: altre ancora siamo noi stessi a sentirne per primi l’esigenza. La ricerca può assumere allora diverse sfumature: ci sentiamo imbarazzati per la nostra “insolita” richiesta, possiamo provare senso di colpa perché forse quei problemi “non esistono, ed in ogni caso avremmo dovuto risolverli da soli”, possiamo sentirci confusi sulla stessa richiesta che esplicitiamo, né sappiamo con precisione cosa ci aspetterà.



Quando chiedo aiuto a una persona ciò significa che mi trovo in difficoltà e che, date le mie condizioni, non ho modo di “aiutarmi da solo”: significa riconoscere la propria impotenza, o se vogliamo la propria non – onnipotenza di fronte alle difficoltà.
Se ci pensiamo bene, questo ci succede quasi quotidianamente, e neanche ce ne accorgiamo: quando ci si rompe un elettrodomestico, quando non funziona più un utensile, quando si consuma un oggetto d’uso comune, noi ricorriamo agli altri ed alle loro competenze, conoscenze, abilità. Così come quando ci troviamo di fronte ad un disturbo fisico, siamo spinti a consultare un medico specialista. Ma la richiesta di consultazione terapeutica ci crea non pochi problemi. Perché chiediamo aiuto per una caldaia in panne e siamo invece ritrosi a chiedere una consulenza psicologica?



Senza dubbio questa richiesta ha il proprio prezzo: ma è un prezzo che presto o tardi potrà diventare un valore, un bene, una sicurezza, una salvezza. Soprattutto un gesto positivo che facciamo nei nostri confronti. Un gesto che ci fa capire quanto, in fondo, già ci stiamo aiutando, perché abbiamo compreso di essere in difficoltà.
Un percorso terapeutico può avere una durata più o meno lunga: può durare alcuni mesi o numerosi anni. Ma questo tempo, qualunque sia la sua durata, è per noi prezioso perché ci facilita la conoscenza di noi stessi, dei nostri limiti ma anche delle nostre risorse, delle possibilità di cui disponiamo e che ancora non abbiamo avuto modo di conoscere.



Quando conosciamo noi stessi, il mondo ci fa meno paura, ed anche le scelte più complesse, prima inconcepibili, ci sembrano pensabili, quasi possibili, perché ne siamo responsabili ed abbiamo la forza di sostenere il peso di queste responsabilità.
Non sempre è sufficiente intraprendere un cammino psicologico per emergere dal buio che ci opprime: è anche possibile che sia necessario un consulto psichiatrico e, di conseguenza, una terapia farmacologica da affiancare a quella psicologica. Ma non bisogna dimenticare che in entrambi i casi stiamo “curando” la nostra psiche ed il nostro corpo (indissolubilmente legati), quindi noi stessi.


martedì 17 settembre 2013

Come parlare di Psicoterapia?


Parlare di psicoterapia non è cosa semplice!
Le tecniche terapeutiche sono tante e per i non addetti ai lavori non è facile comprendere le sfumature e le peculiarità di ogni singolo approccio.
Chi chiede una consultazione psicologica ha il diritto di essere adeguatamente informato per poter scegliere l’orientamento e il percorso più indicato allo specifico stato psichico e alla propria persona.
Il terapeuta è tenuto a fornire una chiara definizione della psicoterapia e ad essere più esaustivo possibile così da aiutare il paziente nella scelta del proprio percorso terapeutico. 
In queste circostanze il professionista realizza che è superfluo ricorrere alle terminologie tecniche apprese durante gli anni di formazione o durante le supervisioni con i grandi guru della psicologia. Il terapeuta deve essere, deve sapere e deve saper fare, cioè deve riuscire ad accogliere empaticamente la persona che ha davanti senza ledere in alcun modo la sua sensibilità e accompagnarlo verso un nuovo cammino, che sia per lui risolutivo. 
Alla luce di queste considerazioni mi sono interrogata più volte su come ridefinire un concetto così importante e allo stesso tempo così complesso per poi poterlo rimandare serenamente ai miei pazienti.
Dopo alcune riflessioni, proprio durante la pratica clinica, in colloquio con un mio paziente, ho ritenuto di poter affermare che “tramite la psicoterapia il terapeuta aiuta il paziente a riscrivere le note per comporre una nuova melodia e, su questa nuova melodia, reinventare i passi, gli schemi e la scena per poi giungere a produrre una nuova coreografia. In questo modo è possibile sostenere il paziente nel danzare la nuova vita. (Paladino, 2013).


Edgar Degas, dettaglio “l’étoile”
Dott.ssa Alessandra Paladino