Avendo da più di dieci anni esperienza con alunni disabili,
rimango costantemente sintonizzata sugli avvenimenti che provengono da questo
tipo di realtà. Mi riferisco, nello specifico, a due notizie che mi hanno
colpita: la prima, relativa al cartello affisso in una scuola privata ischitana
che recitava ‘La scuola è
chiusa per tutti, perché c'è la giornata dei disabili. Sono molto malati quindi
i bambini si impressionano’,
la seconda relativa ad alcuni genitori che hanno deciso di ritirare 6 bambini
da una scuola elementare napoletana perché in classe c’era un alunno disabile (probabilmente
autistico, ma le notizie non entrano nel dettaglio).
Chi di noi non ha mai avuto un
compagno di classe o di scuola disabile? Io, per fare un esempio, sono stata in
banco con un ragazzo con sindrome di Down, alle elementari.
A volte la disabilità
include comportamenti fastidiosi per chi la vive da vicino: aggressività,
rumorosità, odori/perdite sgradevoli e quant’altro. Altre volte, la
‘anormalità’ è silenziosa, come nel caso delle disabilità di tipo cognitivo
(ritardo mentale), sensoriali (sordità, cecità, sordocecità), motorie
(tetraparesi, sclerosi, …). Il mondo è bello perché vario: questo vale anche
per la disabilità. Non è possibile vivere una vita senza aver mai avuto vicino
un disabile: ormai, da alcuni anni, anche al lavoro ci troviamo a contatto con
persone disabili, dal momento che una percentuale dei posti di lavoro è loro
riservata.
A volte preferiamo dimenticare le
‘disabilità’ che ognuno di noi ha o ha avuto nella propria famiglia: nonni
sordi o con una demenza, zii depressi, parenti affetti da franche patologie
somatiche.
Ma allora, perché privare un figlio
di questo tipo di esperienza, dal momento che, prima o poi, ci si dovrà
comunque incontrare? Vogliamo far credere ai bambini che la disabilità,
l’imperfezione, la fragilità umane non fanno parte di questo mondo? Procedendo
di questo passo rischiamo di creare noi una disabilità
ai nostri figli, che poi altro non è se non la meravigliosa ‘campana di vetro’
che ci illude di proteggerli: li priviamo di esperienze basilari, come il
contatto con il disagio e la sofferenza empatica che fanno parte dell’avventura
umana, senza sconti per nessuno.
Senza dubbio non è semplice rispondere
alle domande di un bambino ‘normale’ che entra per la prima volta in contatto
con un compagno disabile; i genitori sono costretti a rispondere alle sue
domande, a dare un senso a ciò che spesso risulta del tutto immotivato, ad
accogliere il suo turbamento, il senso di impotenza e lo sconvolgimento che è
normale provare in situazioni di questo genere. Tutto questo fa parte della
vita: genitori e maestri sono deputati ad introdurre i più giovani nel mondo,
con le dovute cautele, certo, ma anche con le necessarie premesse e i dovuti
incontri.
Per evitare che questi incontri
si tramutino in ‘scontri’ sarebbe bene che il contatto e l’integrazione
abili/disabili avvenga in età precoce, in modalità condivisa anche con gli
altri coetanei (esempio: facendo turnare i vari compagni di banco dell’alunno
disabile) e in un clima di inclusione. E sono proprio gli adulti (docenti e
genitori) che dovrebbero facilitare questo processo di inserimento e
accoglienza.
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